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Notizie dai conflitti nel mondo

 

I giovani ricercatori: Stefano Cortese

 

La storia di due beni culturali a Melissano

La statua della Madonna Immacolata

... Neppure di questa statua (la Madonna Immacolata) si conosce, per carenza di notizie, la data di costruzione. Il vescovo di Nardò, Mons. Giuseppe Ricciardi, mentre elenca, nella relazione sulla visita pastorale compiuta il 12 novembre 1901, tutti gli arredi sacri e i libri e i documenti custoditi nell’antica chiesa, non accenna minimamente alle statue allora esistenti, comprese quella dell’Immacolata. Si sa, tuttavia, esser fatta di legno duro, e precisamente di pero o, come dicono i vecchi, te “pirazzu”. E’ allogata nel nicchiane vetrato addossato nel secondo pilastro. La sua sede, ad onor della storia,  non è stata sempre quella. Seguiamone le vicende. Era fissata, al di sopra dell’altare maggiore, per ornamento e a copertura della nicchia a muro, un’antica pala di tela raffigurante la Madonna Immacolata. Nel 1922 la tela rimossa e sistemata là dove si trova oggi, cioè sulla facciata interna dell’ingresso centrale. Nella nicchia a muro fu trasferita la splendida statua lignea, ritenuta troppo pesante per esser portata in processione. Fu acquistata allora una statua nuova, più leggera, statua che il direttivo della Confraternita collocò nel nicchiane vetrato rimasto vuoto. Le due statue restarono al loro posto per otto anni consecutivi. Nel 1930 i nuovi dirigenti non condivisero la decisione dei loro predecessori, cosicché trasferirono la statua di cartapesta nella nicchia murale e rimisero quella lignea nel nicchiane vetrato. Da allora la splendida immagine è sempre li e, nonostante il suo gravame, viene portata, l’8 dicembre di ogni anno, in processione per le vie del paese. E qui passiamo, per letizia dei vecchi, dalla storia alla tradizione. La statua, bella qual era ed è, secondo il dire dei vecchi, scomparsi e viventi, era molto ammirata da alcuni fanatici casaranesi, i quali decisero di impossessarsene nottetempo e di condurla a Casarano. La via era (e ciò è vero) quella detta dei Parati, allora stretta e ciottolosa, oggi ampliata ed asfaltata. Caricata la statua su un carro tirato da due buoi, s’incamminarono per quella via solitaria, ma arrivati al partifeudo, cioè alla tenuta Parati, i buoi si fermarono. Vani furono tutti i tentativi per farli avanzare. Esasperati, i casaranesi desistettero dal sacrilego piano, cioè abbandonarono i buoi, che lentamente si diressero alla volta di Melissano. In ricordo del “prodigio”, che richiama un po’ quello della mula… di S. Antonio, eressero sul luogo un’icona, che, detta Madonna dei Parati o della Pila, esiste ancora, nonostante l’usura del tempo e le sevizie delle intemperie.

Tratto da : Q. Scozzi, “Note melissanesi”, grafo 7 editrice, 1989, Taviano.

L'Associazione della Confraternita dell’Immacolata possedeva l'oliveto riportato nel primo Statuto, al quale nel 1940 si aggiunse un vigneto che Giuseppe Corvaglia fu Giosuè donò alla Confraternita legandolo alla  celebrazione  di  messe,  panegirico e   settenario   in   onore   dell'Addolorata.  Ma,  data  la tenuità delle rendite dei due fondi, le modeste entrate della Confraternita consistevano, soprattutto, nel ricavato delle questue e delle quote di iscrizione dei confratelli alle offerte dei quali  si  ricorreva  per  il  culto  dell'Immacolata  protagonista,  secondo  la  tradizione    orale,    di    avvenimenti     straordinari     legati alla bellezza della statua.(1)  Gran parte della storia dell'Associazione ruota, infatti, intorno a questa immagine che ha suscitato sentimenti di profonda devozione e di costante impegno per la cura della chiesa Lei dedicata.

Edicola Madonna della Pila

Essa ricorda un evento caro nella memoria dei Melissanesi. Gli abitanti di Casarano si erano tanto invaghiti della Madonna di Melissano al punto di portarla via di nascosto; arrivati però a metà via la statua diventò pesante e i casaranesi non riuscirono più a trasferirla. Nel ricordo di tale evento si è costruita una chiesetta che ricordasse l'accaduto.

Giova notare che recentemente è stata recuperata la pietra dove era raffigurata la Madonna, la quale era stata trafugata da alcuni anni, e giace nella casa di un privato in attesa che la generosità e l'interesse dei Melissanesi consentano un restauro.

Fin verso la fine della guerra, sul finire dell'estate, si teneva la festa della Madonna della Pila, con bande, giochi e baracche...


Vi era, in questa contrada, un gruppo di maestose querce che si ergevano imponenti e solitarie sulla campagna e venivano chiamati "scij".

Dei soldati polacchi, avendo bisogno di legna, decisero di abbatterle, nonostante che il proprietario delle querce, a cui teneva molto, offrì loro in alternativa molti alberi di ulivo più delle querce. I soldati, per dispregio, abbatterono le querce.

Da quando furono abbattute, la festa non si fece più.

Tutt'ora esiste una stilizzata immagine della Madonna con Bambino dipinta sul fondo di una pila (2).

note:

(1) - Il primo episodio fa riferimento al 1923, anno in cui la statua dell'Immacolata fu  posta nella nicchia  dell'altare  maggiore,  preferendo  acquistare  un'altra  immagine  meno  pesante  da utilizzare per le processioni. Si racconta, quindi, che l'Immacolata apparve in sogno al Priore comunicandogli di avere  subito danni alla sua statua a causa della  nuova collocazione alla stessa  non gradita. La mattina seguente fu constatata la veridicità del sogno e   quindi  la   vecchia  statua ritornò ad essere portata in processione e la nuova  fu definitivamente collocata nella nicchia dell'altare, dove attualmente si trova.

Il  secondo  avvenimento  (nel  quale  non  è  difficile  intravedere  un  certo  pregiudizio  nei confronti  dell'allora Capoluogo (Casarano)) riguarda  il tentato furto della medesima statua ad opera  di casaranesi  i  quali,  volendo  onorare  a  tutti  i costi  un'immagine  così  bella  nella  propria parrocchia, penetrarono nottetempo nella  chiesa e la rubarono. Ma  non  riuscirono  nel  loro intento perché,  giunti al  partifeudo  dei  due paesi, la statua divenne così pesante da rendere impossibile  il  proseguimento del viaggio. La  stessa, infatti,  poteva  essere trasportata  solo nella direzione di Melissano, per cui i casaranesi furono costretti a riportare l'immagine nella chiesa della Confraternita.

 

(2) (rubata una prima volta; L’immagine della Pila deve il suo nome al recipiente  dove i buoi si dissetarono)

 

2° comunicazione sull'argomento "Madonna della Pila"

 Stefano Cortese

 

nota aggiuntiva della redazione:

Il tentato furto della statua dell'Immacolata nei confronti della comunità melissanese non è il solo che i casaranesi compiono nei confronti di comunità vicine, infatti, dalla tradizione orale, si raccoglie un altro fatto, questa volta a scapito della comunità di Matino dove vi era un Crocefisso che a detta di popolo compiva miracoli in una delle tante epidemie di peste.

I cittadini di Casarano chiesero in prestito il Crocefisso in modo da alleviare il male che si era sparso nella loro città e dalla comunità matinese ottennero il permesso alla "trasferta" della statua.

Fin qui tutto normale, sino a quando, passato un bel po' di tempo, i cittadini di Matino iniziarono a reclamare la restituzione della statua.

Con vari sotterfugi i casaranesi riuscirono a non restituire il maltolto. Ma in che modo questo avvenne? Semplice, resero irriconoscibile la statua lignea, rivestendola di cartapesta! Solo dopo molti anni è stato scoperto il mistero ed ora il Crocefisso, liberato dall'involucro improprio è stato  restaurato è recuperato nella sua originaria figura e materiale.

 

2° comunicazione sull'argomento "Madonna della Pila"

L’icona della Madonna della Pila o dei Parati (toponimo con cui è conosciuta la contrada) è stata per generazioni oggetto di culto per numerose persone sia di Casarano che di Melissano. Deve il suo nome alla particolarità del disegno, dipinta proprio in una caratteristica “Pila”.

Dopo un trafugamento negli anni 70 e un subitaneo ritrovamento, nel 1999 fu nuovamente rubata. Fu rinvenuta in circostanze accidentali nel 2000 e da allora dopo il clamore della notizia, non se ne fece nulla. Rammaricato per la situazione e la sempre più evidente incuria, ho iniziato ad interessarmi dell’icona soltanto nell’ottobre 2002: nel giro di pochi giorni feci comparire un articolo su “La gazzetta del Mezzogiorno”, uno sul “Il nuovo Quotidiano”, un servizio sull’ex emittente locale Topvideo (ora L’ATV, grazie alla collaborazione di Paolo Manco e Lara Napoli) ed infine affiggere un manifesto nella chiesa parrocchiale di Melissano, ove si spiegava meglio la situazione e l’intenzione di ripristinare il culto.

Molte persone anziane ricorderanno sicuramente la Madonna della Pila, anzi ne rammenteranno il ricordo con nostalgia, in quanto ivi si svolgeva sul finire dell’estate una festa che accomunava Melissanesi e Casaranesi con bancarelle e illuminazioni.

Raccolta una modesta somma (circa E. 200), dalle offerte dei melissanesi, abbiamo ugualmente portata la Madonna presso lo studio di Valerio Giorgino per il restauro, ora già completato.

Il restauro aveva evidenziato una ipotesi che da tempo avevo già prospettato nel manifesto: l’origine antica dell’icona. Infatti sotto allo strato ottocentesco si è rinvenuto uno strato di intonaco che potrebbe risalire al periodo bizantino; non è una teoria campata in aria perché il soggetto riprodotto è quello della Vergine Eleousa (=della Misericordia) e l’usanza di dipingere nella pila è di origine bizantina, proprio come la Vergine della Pila di Marittima: anche qui infatti abbiamo due strati di affresco e il soggetto riprodotto sembra identico.

Non manca anche qui la leggenda volta tutta a favore dei Melissanesi e che mostra una sorta di pregiudizio contro l’allora capoluogo della frazione di Melissano, cioè Casarano. Nota è la leggenda - postulata sicuramente in epoca posteriore alla realizzazione della nostra Madonna della Pila - che collega il culto preso in considerazione con la stupenda statua della Madonna Immacolata, conservata nella chiesa dell’Immacolata in una nicchia di vetro nella ex frazione.

Tale statua, molto bella, era assai ammirata da alcuni fanatici di Casarano che la rubarono di notte per trasferirla nel loro paese, grazie all’ausilio di un carro trainato da due buoi. I buoi intrapresero per volontà dei padroni la via dei Parati, ma una volta giunti all’omonima tenuta (località nota anche col nome di “Scij”), in prossimità del partifeudo tra Casarano e Melissano, questi si fermarono perché < sempre secondo la leggenda >, la statua diventò pesante; questi casaranesi scapparono e così i buoi, secondo una versione aggiuntiva, si assetarono nella nostra “pila”, dove comparve la figura della Vergine col Bambino.  

Ci si affida così alla generosità delle persone devote e non, sicuramente pronte a dimostrare la loro sensibilità, pronte a ripristinare un vetusto culto che ha appassionato e coinvolto numerose generazioni che ci hanno preceduto e che permetterà ancora alla nostra “pila” di sopravvivere, incrementando sempre più la devozione verso un culto che ha un sapore misterioso ma affascinante.

 

La scomparsa abbazia della Madonna del Civo.

 


Discorso introduttivo

In pochi, a Melissano, sanno che un tempo nella parte confinante con Taviano esisteva una vera e propria abbazia, fondata nondimeno che dai monaci Basiliani, che nel corso dell’VIII e dell’IX secolo si erano trasferiti in massa per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste, in un periodo di grande splendore per il Salento: l’era Bizantina.

Sono molto esigui i riferimenti che ci restano su tale monastero, un tempo tanto importante da disporre di un feudo proprio, che nella ridefinizione dei confini andò suddiviso tra Taviano, Racale e Melissano. (1)

Fino a qualche decennio fa vi era un cumulo di pietre a testimoniare la gloriosità di questo edificio: eppure quegli avanzi, meta del celebre pellegrinaggio di Civo (il 25 marzo di ogni anno) era oggetto di tante devozioni. Nonostante il consiglio del De Giorgi, che presago raccomandava la maggiore cura ai posteri, nessuno ha saputo alzare il dito a fermare lo scempio che stava compiendosi e così sono state spazzate le vestigia di una traccia importante della nostra storia e con essa i suoi ricordi e numerose tradizioni.

La storia

 

L’abbazia sorgeva a due Km di distanza da Taviano, sulla sinistra della strada che da Casarano e Melissano porta al paese dei fiori.

Originariamente forse sorgeva su un punto strategico essendo ubicata sulla via Traiana, strada fatta costruire da Traiano a spese proprie, che presentava il prolungamento della via Appia e che attraversava tutta la penisola Salentina in prossimità della costa da Brindisi a Taranto.

Non si sa con certezza la data della fondazione dell’abbazia. Si potrebbe collocare generalmente la fondazione tra i secoli XI e XII, ma si ritiene che risalga sicuramente prima dell’ottobre 1120. Infatti nel Chronicon Neritinum (probabilmente questo però è un falso storico, redatto da Pietro Polidori e GianBattista Tafuri nel XVIII secolo per dare lustro alla città di Nardò, vedi ETIMOLOGIA e LA STORIA, infra op.) dell’abate Stefano si evince: “In eodem anno morio Giliberto Senescalco de signori Goffridu et foe sepelito a la ecclesia de lo monastero de Sancta Maria de Cibo”.

Ci sarebbe da fare un’ampia riflessione su questo episodio. “Nella Chiesa di questo complesso monastico, intitolata alla Vergine Annunziata dell’Angelo, fu seppellito nell’ottobre del 1120 Gilberto Siniscalco, figlio del normanno Goffredo, conte di Nardò, nel 1120”(2)

Ulteriori chiarimenti si possono fare grazie al parroco attuale di Melissano, don Giuliano Santantonio, che nel suo volume su Racale scrive: “Il loro arrivo (dei Normanni) portò come conseguenza il rafforzamento del rito latino, ma non la sua introduzione; esso doveva già essere presente nel paese, e questa circostanza dovette avere non poco peso nella scelta del sito, operata dal conte Goffredo. I primi Normanni, non seguirono una politica di scontro frontale con i Basiliani, ma si limitarono ad occupare gli spazi lasciati liberi da essi, restringendone sempre più il campo d'azione. In linea con questa tendenza Goffredo chiese nel 1090 al Papa Urbano II che la diocesi di Nardò, fino ad allora retta dai Basiliani, venisse affidata ad un abate benedettino, mentre il suo Connestabile Giliberto offrì una prova di deferenza nei confronti dei Basiliani scegliendo la chiesa di Santa Maria del Cio come ultima dimora per il suo corpo”.(3)

A confermare ulteriormente la tradizione c’è Gianbernardino Tafuri, che nel 1719 trascrive il seguente epitaffio:

 

HIC JACET GILIBERTUS MILES

CONESTABULUS CONDAM DOMINI

GOFFRIDI INCLYTI COMITIS. QUI OBIIT

ANNO DOMINICAE INCARNATIONI

MCXXI MENSE OCTOBRI INDIC. XIV

CUIUS ANIMAE REQUIESCAT IN PACE

 

(“Qui giace il Connestabile Gilberto, del fu inclito conte Goffredo. Morì nel mese di ottobre dell’anno del Signore 1120, indizione XIV. La cui anima riposi in pace”. Secondo il sistema di datazione bizantina l’anno iniziava il 10 settembre e il 31 dicembre 1121 del calendario bizantino corrisponde, secondo il computo moderno, non all’anno 1121 bensì al 1120).(4)

C.D. Poso identifica il conte Goffredo con Goffredo II, conte di Lecce, morto prima del 1120(5), ma probabilmente non errano SERIO-SANTANTONIO (6) ad indicarlo con Goffredo, conte di Conversano e di Nardò, morto tra il 1104 e il 1107 e che nel 1104 aveva fatto costruire a Racale il monastero di Santa Maria la Nova.

Occorre ricordare che L’Arditi e chi dipende da lui indica il miles Giliberto Senescalco figlio di Goffredo il Normanno, conte di Nardò e lo si dichiara morto nel 1125 (e non nel 1120); si è caduti in tale equivoco perché si è fatto dipendere il complemento di specificazione (condam domini Goffridi incliti comitis) dal nome proprio del miles (Gilibertus) e non dal suo attributo (connestabulus) e di conseguenza  non si è tradotto “Qui giace Giliberto, Connestabile del fu inclito conte Goffredo”.

Tafuri ci tramanda altre tre epigrafi, tutte riferenti però a successivi restauri.

 

-Sulla soglia della porta maggiore della chiesa:

TEMPLUM HOC

JACOBUS DE BAUCIO

EPISCOPUS LEUCADENSIS REHEDIFICAVIT MDVII

(Giacomo Del Balzo, vescovo di Leuca, riedificò questo tempio.1507).

 

-Sulla grande soglia della porta dell'atrio dell'abbazia:

JOANNES JACOBUS DE BAUCIO

EPISCOPUS LEUCADENSIS

HOC OPUS FIERI FECIT

ANNO MCCCCXXXVII

(Giangiacomo Del Balzo, vescovo di Leuca, realizzò quest’opera nell’anno 1437).

 

-Sopra la soglia della finestra dell'antico cenobio abbaziale:

 

PETRUS ABBAS S. MARIAE DE CIBO

FIERI FECIT

ANNO DOMINI MCCCLI

(Pietro, abate di S. Maria de Civo, realizzò nell’anno del Signore 1351).

 

Queste lapidi al tempo della visita di Cosimo De Giorgi a Taviano (1886), non esistevano più. Esistevano soltanto dei graffiti che lo storico di Lizzanello aveva ricopiato:

1543- Porcia Ptolomea (baronessa di Racale) Contessa de Potenza fo qua a li 16 febbraio.

1564- fu ditta Signora col Signor Conte… e magnaro.

1597- A di 13 aprile 1597 fu qui D. Pompeo De Benedettis (era un sacerdote di Racale).

Oltre a questi graffiti De Giorgi ci ha riferito che esisteva una pietra proveniente da Civo. In effetti, il compianto Pompeo Lupo, nella sua opera “Stoppie” scrive: “Lo stesso De Giorgi però riferiva che, inquadrata alla base del campanile della parrocchiale di Taviano, si trovava una pietra proveniente da Santa Maria de Civo (e che aveva costituito la soglia della porta di casa di un contadino), con incisa questa iscrizione: Renaldus Lupus vir devotus/ Dive Nunciate/ condidit hanc cappellam 1514" (7). Quest’ultima pietra, che ci dice della costruzione di una cappella dedicata all’Annunziata per devozione di un uomo pio, tale Rinaldo Lupo, evidentemente annessa alla basilica, ci spiegherebbe la particolare devozione dei Tavianesi per la Vergine Annunziata, devozione che, fino ad alcuni decenni fa, si esprimeva ogni anno con  un pellegrinaggio alla Madonna del Civo.

Conclusa questa lunga parentesi sui reperti lapidari, continuiamo la storia.

Nell’aprile 1325 si recò il sub-collettore Bartolomeo per riscuotere la colletta di 6 tareni. L’episodio che avvenne una cinquantina d’anni seguente alla visita, è molto più importante. Infatti Mario De Marco non convalida la tesi di don Giuliano Santantonio nel suo volume su Taviano.

Lo scrittore di Cavallino ci riferisce che l’abbazia ha sempre fatto parte della diocesi di Nardò, al cui Vicario l’abate prestava obbedienza e che la latinizzazione della diocesi di Nardò “sopravvenne dopo l’episcopato di Ciriaco, da come si deduce da una lettera di Gregorio XI, datata 29 aprile 1374, riguardante la nomina di un nuovo egumeno di S. Mauro (abbazia di cui S. M. de Civo faceva parte). Il vescovo di Gallipoli menzionato in questa lettera è Domenico, nome di chiara origine romana. Da Domenico in poi tutti i vescovi di Gallipoli saranno latini" (8). Questo è un avvenimento molto importante per le vicende dell’abbazia, che alla fine del XIV secolo sicuramente passò sotto l’obbedienza romana

La querelle sembra essere risolta da Pizzurro. Quest’ultimo, invece riprende la tesi di Santantonio, ma ciò può essere inteso come una affermazione di sovranità dei Normanni nell’ambito della sfera religiosa bizantina, perfettamente in linea con la loro politica di rekatolisierung (9) (rilatinizzazione), che vide tra i suoi artefici anche Goffredo, il conte di Nardò (probabilmente il Goffredo cui si allude all’epigrafe), che proprio nella vicina Racale aveva fondato il monastero di Santa Maria la Nova e che nel 1090 aveva affidato la diocesi di Nardò ad un abate benedettino, in luogo dei Basiliani che l’avevano retta sino ad allora. In questa prima fase il rito latino venne semplicemente da affiancarsi a quello greco, ma inevitabilmente veniva ad innescare quel processo di erosione della grecità che nella nostra zona persisterà ancora a lungo.

Nel 1412 la diocesi neretina era retta da vescovi, ai quali era riservato anche lo ius eligendi (l’assegnazione al vescovo del diritto di nomina degli abati).

Questo dato trova conferma anche nella Relatio de statu veteri et recenti Neretinae Ecclesiae, che annovera l’abbazia di Santa Maria de Civo tra le quattordici abbatiae inferiores dipendenti dal monastero urbano di Nardò.(10)

Il monastero, come ci dimostrano le lapidi, fu ricostruito nel 1507 da Giangiacomo del Balzo, vescovo di Leuca.

Nonostante nel XVII secolo possedeva un reddito di 150 ducati annui, il tempio appare già in rovina. La chiesa viene descritta ad una sola navata con il tetto a tegole e adorno di tre altari, uno dei quali dotato di un beneficio ecclesiastico, di patronato dei De Franchis, signori di Taviano.

Molto probabilmente il patrimonio bibliotecario, di grande valore, in quel secolo “esulo” verso Grottaferrata, un paese sui colli Albani. In effetti nella Relatio de statu veteri et recenti Neretinae ecclesiae si trova conferma: vengono segnalati come possedimenti un paio di “vestimenti fornutis” in lino, due calici in peltro, due candelieri in bronzo, una campana collocata sul campanile ed un’altra più piccola, la “Campanella piczula”. Consistente era il patrimonio libraio, che annoverava dieci libri liturgici greci, il cui numero era superiore a quello presente nelle chiese matrici dei paesi vicini. L’abbazia di S. M. del Civo possedeva un Missale in greco, un altro Missale di Crisostomo e Basilio ed una “prosmena”, un’Epistula “in carta cornigna”, un Evangelium “catamerium in carta cornigna”, una parte di vecchio Vangelo, un Triodo in carta pergamena, un altro Triodo che era stato dato in prestito a don Antonio Vitali da Scorrano, una vecchia Prophecia in cattivo stato, un Emineo mutilo all’inizio e alla fine, un altro Emineo che era stato dato in prestito al defunto arciprete di Cursi ed un altro “peczo” di libro in pergamena contenente la “legenda” dei Santi.

Più che l’entità numerica, è però interessante sottolineare il particolare che due libri liturgici erano stati dati in prestito (uno all’arciprete di Cursi e l’altro ad un sacerdote di Scorrano) dal quale si evince che ancora alla metà del XV secolo l’abbazia Santa Maria de Cibo fosse considerata un punto di riferimento ad un centro di diffusione e di cultura religiosa greca in quest’angolo del Salento.

Il suo nome è poi compreso in due elenchi di abbazie dipendenti da S. Maria di Nardò, contenuti in un fascicolo della visita del vescovo Cesare Bovio che porta la data dell’ottobre 1577, e ricorre in una bolla vescovile del 16 aprile 1635, che si riferisce alla nomina di Vincenzo Carafa, chierico napoletano, quale rettore della chiesa abbaziale di S. Maria de Civo, sita già allora nel territorio di Melissano.

Dalla visita del 1714 del vescovo Antonio Sanfelice si rileva che l’altare maggiore possedeva una tela raffigurante la Vergine Titolare e gli altri due altari erano rispettivamente dedicati a S. Ignazio di Loyola ed alla Madonna delle Grazie.

L’antica chiesa probabilmente subì notevoli danni il 20 febbraio del 1743, che causò tanti crolli nel Salento.

Tra i documenti del "Fondo” Ambrosio (1884) si trova:

"A sud-est dell'abitato (Taviano) ed alla distanza di circa due Km rimangono nel territorio pochi ruderi dell'antico e nobile monastero sotto il titolo di S.M.di Civo, opera senza dubbio dei Basiliani e nella cui chiesa fu seppellito Gilberto Di Goffredo Normanno conte di Nardò nel 1125 come si ricava dalla cronaca neretina di Abbate Stefano ricordata dal Tafuri, Oggi non si trovano che le tracce di un'antica necropoli, e non è infrequente il caso di smuovere colla vanga od aratro sarcofagi o vasi mortuari" (11).

Dopo il 1848 i ruderi hanno testimoniato per oltre un secolo la memoria di un antico e illustre insediamento, che sono sopravvissuti all’incuria dell’uomo, ma non hanno avuto scampo dalla brama di conquista delle cose materiali.

 

    L’etimologia

Il nome Santa Maria de Cibo (o del Cio) deve essere considerato il titolo originario (la titolatura originaria) dell’abbazia, in quanto è il solo a comparire nei documenti dei primi secoli (XIV-XVIII). La variante Civo deriva dalla prima per betacismo (passaggio dalla b alla v), secondo un fenomeno tipico salentino, e la si incontra per la prima volta nella Relatio del 1412 (12): essendo però questa un falso settecentesco redatto ad opera di Pietro Polidori, si deve collocare al settecento la sua prima attestazione. Da Civo si è poi generata per apocope Cio (e Ciu in dialetto), che è l’attuale ed unico nome conosciuto dagli abitanti del luogo.

Per una prima ipotesi si potrebbe fare derivare il nome Civo dal latino Cibus, che in seguito sarebbe diventato civus (esiste tuttora il termine civare usato per indicare l’azione con cui viene posta l’esca all’amo), ma questa ipotesi non da garanzie.

Per una seconda ipotesi si potrebbe far derivare il nome Civo dal greco Cion(neve) o Kion(colonna). Siccome i monaci erano Bizantini (quindi parlavano il greco) e non sono poche le chiese dedicate alla Madonna della Neve si sarebbe tentati a rendere più accreditata questa ipotesi; ma non risulta da nessuna parte che l’attributo alla Madonna venerata fosse la neve e anche se fosse il nome Cion in italiano sarebbe diventato Chio e non Cio (13).

L’ipotesi più accreditata invece sarebbe la considerazione di Serio-Santantonio, cioè che il vocabolo Civo derivi dal nostro dialetto. Infatti esiste un suono onomatopeico con il quale i bambini richiamano gli uccelli, Ciu. Così Madonna del Cio diventerebbe Madonna dell’Uccellino, testimoniata anche da Cosimo De Giorgi che nei suoi “Bozzetti di Viaggio”, che conferma: “Il dipinto…rappresenta la vergine assisa su un sontuoso trono baldacchino col Bambino che con la destra benedice e nella sinistra ha un uccellino bianco”. (14)

Così l’affresco che era situato sul muro a destra dell’ingresso suscitava una grande tenerezza tanto da indicare il luogo con il nome che i bambini danno ad un uccellino:Cio.

Tale spiegazione, per quanto dotta, non è tuttavia condivisibile perché basata non sulla forma originaria del nome (Cibo), bensì su quella che è il risultato finale delle trasformazioni linguistiche verificatesi nel corso dei secoli (Ciu). Né a sostegno dell’etimologia può esser addotto il dipinto, di cui si ignorano autore e data che,
comunque, doveva esser successiva al 1507, anno in cui venne ricostruita la chiesa ad opera di Giacomo del Balzo.

Il significato del titolo originario della chiesa era di per sé evidente e non richiedeva alcuna esegesi etimologica: si tratta di un nome augurale, come lo è quello di altre coeve abbazie basiliane, ad esempio quella di Sant’Angelo de Salute (Galatone): in questo caso ci si augurava la buona salute, così come nel nostro l’abbondanza di cibo, coerentemente all’opera di dissodamento delle terre e di valorizzazione agraria intrapresa dai monaci Basiliani.

 

 Ricordi (P. Lupo)

 

Il pellegrinaggio dei nostri paesani all'Annunziata di Civo, di cui ho fatto cenno prima, avveniva il 25 di marzo di ogni anno, nel pomeriggio, ed erano soprattutto le mamme quelle che, tirandosi dietro i figlioletti, si recavano alla "Madonna te Ciu". Il luogo non era molto lontano dal paese (da Taviano distava un paio di chilometri circa) ed era quasi al centro del territorio posto tra Taviano, Racale e Melissano, con una leggera sporgenza verso quest'ultimo. Lungo la stretta via di campagna, respirando l'aria frizzantina della recente primavera, si recitava il S. Rosario, con un certo disappunto di noi ragazzi, ai quali veniva imposto almeno il silenzio.

Giunti al sito, una breve sosta dinanzi al dipinto dell'Annunciazione che raffigurava su di un muro sbrecciato. Poi la gente si sparpagliava nei prati, si accomunava e familiarizzava anche con i forestieri che, pellegrini anch'essi, provenivano dalla vicina Melissano.

Io ricordo quei muri diroccati, ricordo vaghe pitture sbiadite e scrostate, ricordo delle buche nel terreno circostante e c'era chi le descriveva come resti di un sepolcreto e chi invece parlava di grotte nelle quali i monaci si isolavano a lungo per digiunare e pregare. E, ragazzino quel che ero, ricordo soprattutto la festa indescrivibile che facevamo con tanti altri compagni di viaggio, quando giungevamo "all'Acquari". Era questo un ampio pantano che si trovava in un campo lungo la strada, nel quale vivevano e si moltiplicavano a centinaia, forse a migliaia, le rane che in dissodante coro gracidavano in continuazione e si mostravano alla superficie dell'acqua limacciosa e verdastra e saltellavano nell'erba tenera del prato. Erano bellissime e per noi erano un grande divertimento.

Si tornava poi a casa alquanto stanchi, stringendo però in un fazzoletto annodato un pugno di nocciole acquistate "per devozione" all'unica bancarella e, quel che era consueto in quella circostanza e appariva singolare (chissà perchè), due o tre "maranci"(arancie) dal sapore acre di... acido fenico(15).

 

 Note:

(1) - C.G. CENTONZE- A. DE LORENZIS- N. CAPUTO, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Galatina, 1988: “Nell’inventario dei beni dell’abbazia di Santa Maria de Cibo si dice che gli eredi di don Nicola possedevano <<clausiorum unum vinearum allo feudo della dicta chiesa>>

(2) - M. DE MARCO, op. cit.; vedi anche LA STORIA infra op.; L’ARDITI afferma, senza citare l’eventuale fonte, che “il monastero fu probabilmente opera della nota pietà e munificenza di Goffrido il Normanno, conte di Nardò”. Secondo B. VETERE però ci riferisce che l’ipotesi soprascritta sia confutabile. Il conte di Nardò si distinse per la sua opera di rilatinizzazione; quando questi fondò un monastero, come ad esempio avvenne nella vicina Racale, Goffredo vi insediò monaci Benedettini. In questo modo confuta anche la tesi di SANTANTONIO.

(3) - SERIO- SANTANTONIO, Racale- note di tradizione e cultura, Galatina, 1983

(4) - L’indizione bizantina (o greca), che era in uso nell’Impero Romano d’Oriente, in occidente venne usata nelle cancellerie regie sino ai primi decenni del IX secolo e in quella pontificia sino al 1087, ma in alcune zone d’Italia, soprattutto quella meridionale, perdurò per tutto il medioevo.

(5) - D. POSO, Il Salento Normanno. Territorio- istituzione- società, Galatina, 1988

(6) - SERIO- SANTANTONIO, op. cit.

 Va tenuto presente che il Chronicon Nerithinum non è attendibile perché, come hanno ben dimostrato gli studi filologici, è” una falsificazione di tempo assai posteriore al secolo XIV”.

(7) - P. LUPO, Stoppie- Ricordi Tavianesi, Taviano 1997

(8) - M. DE MARCO, op. cit.

(9) - M. PASTORE, Pergamene dei secoli XVI-XVIII nell’archivio di stato di Lecce, in “Note di civiltà medievale”, Bari, 1980.

(10) - Relatio ACVN, C/149. Relatio è il primo documento in cui l’abbazia appare con la denominazione de Civo anziché con de Cibo, che continua a comparire nella restante documentazione almeno sino a tutto il XVI sec: questo potrebbe essere un tassello importante (e che nessuno lo ha considerato) da aggiungere all’ipotesi di coloro che ritengono la Relatio un falso settecentesco.

(11) - M. DE  MARCO, op. cit.

(12) - Per maggiori informazioni sul Relatio vedi A. PIZZURRO, Terra Alisti, Lecce, 1999, pp.51-53

(13) - M. DE MARCO, Taviano. Dalle origini ai nostri giorni, Lecce, 1991 e SERIO –SANTANTONIO, Racale-note di tradizione e di cultura, Galatina, 1983.
(14) - C. DE GIORGI, Provincia di Lecce- Bozzetti di viaggio, Galatina, 1975

(15) - P. LUPO, op. cit.

Bibliografia

F. Scozzi: "Melissano- società, economia e territorio fra '800 e '900", Edizioni del Grafo, Lecce, 1990

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Mario De Marco: "Taviano. Dalle origini ai nostri giorni", Edizioni Del Grifo, Lecce, 1991

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C. Santoro: “Riflessi preistorici e storici nella terminologia geomorfologica relativa alla civiltà rupestre mediterranea" in "Habitat-Strutture-Territorio", Congedo, 1978

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G. Arditi: “Corografia fisica e storica della Provincia di terra d’Otranto”, Lecce, 1897.

B. Vetere: “Città e monastero. I segni urbani di Nardò”, Galatina, 1986

IDEM: “La Relatio de statu veteri et recenti Neretinae Ecclesiae et diocesisdell’abate De Epifanis (1412), Galatina, 1981

C.G. Centone- A. De Lorenzis- N. Caputo: “Visite pastorali in diocesi di Nardò”, Galatina, 1988.

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C. D. Poso: “Il Salento Normanno. Territorio, istituzioni, società “, Galatina, 1988

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A.Jacob: “Gallipoli bizantina in “Paesi e figure del vecchio SalentoGalatina, 1989

Stefano Cortese 

Nota della redazione:

Su richiesta dell'amico Stefano, intervengo per spiegare l'etimologia del termine a cui fa riferimento il Nome di "Madonna del Cibo o Civo".

Nella parte dedicata all'etimologia vi sono due punti che possono farne il significato e e questi sono:

a - ".. si potrebbe fare derivare il nome Civo dal latino Cibus, che in seguito sarebbe diventato civus (esiste tuttora il termine civare usato per indicare l’azione con cui viene posta l’esca all’amo)..."

b - "... Cosimo De Giorgi che nei suoi “Bozzetti di Viaggio”, che conferma: “Il dipinto…rappresenta la vergine assisa su un sontuoso trono baldacchino col Bambino che con la destra benedice e nella sinistra ha un uccellino bianco ...

 

Oltre questo si ha notizia di un'altro affresco dove le figure rimangono identiche solo che il Bambino in questo caso non ha la mano destra in posizione benedicente, bensì con quella mano porge da mangiare all'uccellino che ha, posato, sulla mano sinistra.

Il simbolismo ecclesiastico è imperante in questa vicenda, infatti se noi analizziamo quanto riferitoci dal De Giorgi e l'ulteriore affresco, circa la rappresentazione iconografica della Madonna del Civo abbiamo quali figure: la Madonna, il bambino ed il passero.

Viste singolarmente nei loro simbolismi abbiamo: la Madonna quale simbolo della Madre, della protettrice e dell'insegnante (nei confronti del Bambino); il Bambino quale simbolo del gioco, dell'infanzia, dell'apprendimento e contemporaneamente della semplicità e della santità; l'uccellino (che di solito è un passero, in questo caso bianco, a rappresentarne il candore) quale rappresentazione dell'anima.

Quindi a questo punto e con queste chiavi diviene facile giungere alla soluzione dell'etimo del nome "CIVO". La Madonna del Civo significa la Madonna che insegna al Bambino come nutrire (civare) la sua anima candida.

Pino De Nuzzo

L'assalto al patrimonio culturale

Con la finanziaria 2002 e poi la legge Tremonti del giugno 2002  che sancisce l'istituzione della "Patrimonio dello stato spa" da parte del governo, si è aperto in Italia un dibattito che riguarda in particolare i beni che rivestono un valore storico e culturale.

Salvatore Settis, archeologo della scuola Normale Superiore di Pisa e uno dei pochi archeologi italiani noti al grande pubblico, ha tempestivamente pubblicato un volume, preoccupato da tale situazione, con il significativo titolo "Italia SpA. L'assalto al patrimonio culturale". La situazione voluta dal governo è stata dettata da motivi sempre più preoccupanti che riguarda soprattutto l'incuria dei beni in cui versano: per lo stato infatti solo la privatizzazione dei beni consentirebbe di salvare il maggior numero di monumenti possibili.

Secondo le opinioni personali, il Settis evidenzia il fatto che il nostro patrimonio culturale sia il fulcro della nostra identità nazionale e della nostra memoria storica. E' diffuso nelle città, campagne, coste, monti: è un patrimonio che lo incontri inconsapevolmente. Il capillare intreccio di bellezze naturali e monumentali è il tessuto connettivo del nostro paese, un caso unico al mondo per contiguità e continuità. Per il Settis, noi ci sentiamo parte di questo contesto e di quella "secolare cultura di conservazione" messa a punto dagli italiani per generazioni e generazioni nelle istituzioni e nella coscienza civile.

Gli italiani in materia di patrimonio culturale non hanno da imparare piuttosto da insegnare, perchè l'ampliamento del concetto stesso di patrimonio artistico è un prodotto della cultura italiana. E' anche questa consapevolezza che ci fa sorridere delle sciocchezze che periodicamente riecheggiano a proposito di quale percentuale di beni culturali sarebbe custodita nel nostro Paese, e che ci dovrebbe far essere gelosi custodi dal modello "Italia".

Un sottotitolo del volume del Settis recita la formula "Innovare, non copiare" e per spiegare ciò si rifà alla copia del modello delle Università italiane che copiarono pari pari quelle tedesche; fra le critiche più dure ci fu quella di Villani nel 1872: "Non bisogna guardare alla luna; non bisogna ragionare come se fossimo diversi da quel che siamo; non bisogna ogni notte sognare la Germania come una volta si sognava la Francia. Bisogna innanzitutto studiare l'Italia. Noi siamo entrati in un'officina, abbiamo preso una ruota che comunicava il suo meccanismo a cento altre, l'abbiamo isolata dal resto e restiamo sorpresi perchè non pone in moto più nulla. Un meccanismo, trasferito da un paese all'altro, non porta necessariamente dappertutto i medesimi risultati". Sostituendo gli Stati Uniti alla Germania, questa riflessioni oggi è di grandissima attualità.

Il riferimento al modello americano, o meglio alla sua mitologia, sembra ineluttabile. E' un riferimento che ha ottime ragioni: infatti, i musei americani spesso funzionano molto bene, hanno molti visitatori, un attivo programma di mostre e di nuove acquisizioni, ottimi servizi per le scuole e le visite, una gestione dinamica, imprenditoriale. Ma non sarà questo il toccasana, come ha rivelato il Villani.

A differenza di quelli statunitensi, i nostri musei sono incardinati nel territorio, formano un tutto unico con le città e le campagne che lo circondano: fra il villaggio abitato e il museo, fra la chiesa e il paesaggio, fra la città, fra la campagna, la villa non c'è soluzione di continuità, ma un'unica tessitura concresciuta nel corso dei secoli. Perciò il "modello Italia" di tutela prevede che il patrimonio culturale sia tutto di interesse pubblico, anche se solo in parte di proprietà pubblica; mentre nulla di simile prevedono le leggi americane. Perciò la normativa italiana impone allo stato la tutela dell'intero patrimonio culturale della Nazione, quella americana no: se un museo americano dovesse vendere un quadro di Tiziano non toglierebbe nulla alla storia, poniamo, della California, in quanto le collezioni dei musei non hanno alcun nesso storico col territorio che li accoglie; se lo facesse l'Accademia di Venezia, mutilerebbe la storia di quella città e dell'Italia.

Come Saturno che divora i suoi figli, il dipinto raffigurato nella copertina del libro del Settis, lo stato prospetta di mettere in vendita il nostro patrimonio culturale, tra vecchie caserme e caselli ferroviari, in una lunga lista di gioielli di famiglia. Attraverso la Patrimonio S. p. A., creata per la valorizzazione, la gestione e la alienazione del patrimonio dello Stato, può partire l'assalto a un patrimonio, costituito per la massima parte da beni culturali.

 

(Notizie tratte ed adattate da :

-Daniele Manacorda, Beni culturali: dalla tutela alla svendita? in Archeo N° 1 gennaio 2003;

-Francesco D'Andria, Formazione universitaria per i beni archeologici nel Salento. Nella prospettiva europea, marzo 2003

-Salvatore Settis, Italia spa. L'assalto al patrimonio culturale, Einaudi, 2002)

Stefano Cortese

dello stesso autore si segnalano i siti internet:

www.geocities.com/adesold/Felline           su Felline

www.melissano.too.it                                   su Melissano

www.geocities.com/adesold                  sulla cripta ipogea del Crocefisso ad Ugento