I giovani ricercatori:

Oreste Caroppo

                  15-12-06                         

  

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"Antiche pietre"

 
MONOGRAFIE
Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo.
Antichi sacrifici all’ombra dei menhir  
Influssi maltesi nei menhir del Salento.

Ricerca e analisi di petroglifi incisi sulle superfici di alcuni menhir salentini

Studi sui menhir a pilastro squadrato pugliesi e più in generale sul culto betilico

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I giovani ricercatori: Oreste Caroppo

 

MONOGRAFIE:

  • Antichi sacrifici all’ombra dei menhir  

    • Da lato al menhir, si dissotterrarono dei sepolcri con scheletri giganteschi

    • Nel culto messapico e apulo della colonna, l’eco della religione dei menhir

    • Gli antichi menhir per i messapi erano sacre colonne erette dagli antenati

  • Influssi maltesi nei menhir del Salento.
    • L’anomala sezione del menhir Cutura
    • Analisi delle decorazioni a forellini sulle facce del Menhir Cutura
    • Influssi maltesi sui menhir salentini
    • Importanza del Menhir Cutura

ALTRI INTERVENTI E RINVENIMENTI

 

 


 

 

M O N O G R A F I E

 

Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo.

  • Nel Salento la soluzione di uno dei più grandi misteri della storia del Mediterraneo arcaico: l’estinzione della ‘civiltà dei templi’ di Malta!

  • Dietro la semplicità dei megaliti salentini si celano genti evolute e ben organizzate, protagoniste nell’età del bronzo dei traffici commerciali nel cuore del Mediterraneo!

 

Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo.

Confrontando le espressioni del megalitismo salentino in particolare dolmen e menhir, ascrivibili all’età del bronzo, con analoghi monumenti presenti nel resto del mondo, molto interessante si rivela la forte somiglianza tipologica con i dolmen e i menhir dell’Arcipelago Maltese. Una somiglianza che coinvolge anche alcuni di quegli aspetti, che nel megalitismo salentino si possono considerare più peculiari e che sono frutto della evoluzione subita localmente dalla ‘cultura delle grandi pietre’. Si tratta di aspetti autoctoni del Salento, poiché sin ora non riscontrati nelle altre realtà megalitiche, note e studiate.

Nell’Arcipelago Maltese, le cui due isole principali sono Malta e Gozo, si contano oggi alcune decine di dolmen. Questi sono molto simili ai salentini per dimensioni, aspetto e soluzioni costruttive; non solo, i lastroni di copertura presentano a volte una scanalatura sul bordo, o fori passanti, particolari che si ritrovano nei dolmen salentini i cui lastroni mostrano talvolta scanalature, che vi corrono intorno a mo’ di canalette (ad esempio nel dolmen Stabile-Quattro Macine e nello Sferracavalli), fori passanti (ad esempio nel dolmen Scusi e nel Peschio), ma anche coppelle (come nel dolmen Noa), vere e proprie bacinelle (come sul lastrone del dolmen Specchia) e fenditure tagliate sul margine (ad esempio nel dolmen Specchia stesso).

Nell’arcipelago si son ritrovati anche alcuni menhir, del tipo a pilastro squadrato in forma parallelepipeda simile alla tipologia di menhir più diffusa nel Salento.

 


Menhir Il-Hagra tad-Dawwara, sull’ isola di Gozo. Foto tratta dal sito “The Megalithic Portal and Megalith Map” (www.megalithic.co.uk).Confronto tra menhir salentini e menhir maltesi:

 

Menhir Il-Hagra tad-Dawwara, sull’isola di Gozo, nell’arcipelago di Malta.

É un blocco parallelepipedo di calcare, alto 4,50 m, e con sezione di 61cm per 64 cm. Un menhir in tutto simile ai menhir del Salento.

Il Menhir Il-Hagra tad-Dawwara, è stato trovato nel 1935 sotto 2,7 m di terra e sopra un pavimento in ciottolo di circa 300 metri quadri, che fa ipotizzare un’area sacra al cui centro si innalzava il monolite.

Su una delle sue facce si possono notare nella foto alcuni fori ciechi.

Il particolare dei fori si ritrova anche su altri menhir dell’arcipelago. Ad esempio, un foro cieco a sezione circolare si osserva su una delle facce maggiori del menhir Is-Salib sull’isola Malta, un monolite squadrato a sezione grossomodo rettangolare, e rastremato rozzamente nella parte superiore.

  Si tratta di un particolare che stiamo ritroviamo anche su numerosi menhir salentini, dove talvolta si osservano sulle facce, fori ciechi di sezione grossomodo quadrata o circolare e persino veri e propri fori passanti.menhir Grassi a Carpignano Salentino Son solito chiamare questi fori ciechi o passanti, ’l’occhio del menhir’ , ma è questo un interessantissimo particolare del megalitismo salentino cui dedicherò un intervento ulteriore!

 

 

 

 

 

 

 

Menhir Grassi a Carpignano Salentino. É un blocco parallelepipedo di calcare compatto alto 4 m, e con sezione 50 cm per 21 cm. Si noti la perfetta somiglianza di questo tipico menhir salentino con il menhir maltese mostrato.

 

 


Confronto tra dolmen salentini e dolmen maltesi:

Dolmen Caroppo I  (Corigliano d' Otranto).

Dolmen, nelle campagne di Corigliano d’Otranto, che ebbi personalmente il piacere di scoprire durante le campagne di ricerca del 1993.  Si tratta di un grande dolmen composito formato da quattro celle adiacenti, sormontate da altrettanti lastroni. L’interessantissimo sito in cui sorge questa struttura, una necropoli dell’età del bronzo, ricca un tempo di dolmen e piccoli tumuli sepolcrali,  è stato recentemente danneggiato, e il dolmen stesso, rischia di essere oggi criminosamente abbattuto, se le autorità comunali non interverranno al più presto!

 

Dolmen Ta_Qadi sull’isola di Malta. Si noti la strettissima somiglianza tipologica tra questa struttura dolmenica maltese e quella del dolmen salentino di Corigliano, tanto forte da rendere superflui i commenti. Dolmen Ta-Qadi (Malta). Foto tratta dal sito “The Megalithic Portal and Megalith Map” (www.megalithic.co.uk).Osserviamo addirittura il medesimo uso di piccole zeppe di pietra tra i conci soprapposti a formare i pilastri di sostegno, posizionate opportunamente al fine di conferire ai massi poco rifiniti, la corretta inclinazione o per colmare gli interstizi.

Il Dolmen nella foto è una struttura ubicata tra le rovine del tempio di Ta-Qadi. Si tratta probabilmente di uno dei tanti templi di pietra della civiltà neolitica e calcolitica dell’arcipelago maltese. Il dolmen fu lì costruito dai nuovi conquistatori dell’età del bronzo per sfruttare la disponibilità in loco di materiale lapideo ottenibile dal tempio e forse anche perchè quei luoghi sacri, benché abbandonati, conservarono la loro aurea di sacralità anche nei secoli successivi.


Interpretazione dei dati archeologici.

Nel Salento, forse, la soluzione di uno dei più grandi misteri della storia del Mediterraneo arcaico: l’estinzione della ‘civiltà dei templi’ di Malta!

I megaliti maltesi risalenti all’età del bronzo, presentano analogie troppo forti di forme e quindi di pensiero, con i coevi megaliti salentini, perchè si possa escludere, che nell’età del bronzo e forse ancor prima, si svilupparono tra quelle isole nel cuore del Mediterraneo e l’antico Salento, intensi rapporti, pacifici o violenti che furono.

 Rapporti che potrebbe contenere la chiave di risoluzione di uno dei più grandi misteri della storia del Mediterraneo arcaico.

Figura 5: Vista aerea del Tempio di Mnajdra (3600-2200 a.C.). Esempio di grande tempio neolitico maltese. Foto tratta da ’www.carnaval.com’.Prima della costruzione dei dolmen e menhir maltesi (come già ricordato coevi ai Salentini e risalenti all’età del Bronzo), prosperava nell’arcipelago una fiorente ed evoluta civiltà, che aveva costruito numerosi, imponenti ed elaborati templi di pietra con annesse strutture ipogee, dedicati al culto della Dea Madre.

 

Misteriosamente e senza grosse avvisaglie di declino, nel 2200 a. C., dopo circa 1500 anni di tranquilla prosperità, la civiltà dei templi entrò in crisi e i luoghi sacri vennero repentinamente abbandonati. Nello studio archeologico dei sedimenti sembra quasi come se la popolazione fosse scomparsa dall’isola all’improvviso!

Quali tragici eventi provocarono l’estinzione di quella cultura? 

Forse una bellicosa popolazione impugnante armi di rame e bronzo, sbarcò su quelle isole, e sterminò, disperse o sottomise quelle genti, non avvezze alla guerra, e che erano vissute pacificamente nell’arcipelago, isolate e protette dal mare.

Tracce di incendi nei templi raccontano forse quella tragica invasione!

I maltesi non conoscevano ancora il bronzo, che permetteva la realizzazione di  resistenti e micidiali armi atte alla offesa.

Altri popoli invece, nelle aree continentali, si stavano sempre più specializzando nell’uso sanguinario della nuova tecnologia metallurgica, e dunque nell’arte della guerra attraverso cui impossessarsi facilmente di terre, bestiame e ricchezze di altre comunità!

Poco dopo il  2200 a.C. compaiono a Malta i primi megaliti di influsso salentino, segno inequivocabile dello stanziamento nell’arcipelago di genti provenienti dalla Penisola  Salentina.

 Nuovi conquistatori di una terra quasi ormai deserta, gli arcaici salentini,  vi introdussero la loro cultura e costruirono dolmen e innalzarono menhir come facevano in Puglia le popolazioni da cui provenirono.

Ma si trattò davvero di un invasione cruenta?  Furono gli stessi salentini gli autori di quell’efferato attacco alla civiltà neolitica maltese o questi si insediarono in isole già deserte, a seguito delle violente scorrerie di altri predoni del Mediterraneo, oppure la popolazione era stata decimata da una virulenta epidemia o da un violento cataclisma, come alcuni dati geologici sembrano suggerire?

Domande cui solo l’archeologia e forse lo studio più profondo della mitologia e della linguistica, potrà rispondere!


CONCLUSIONI

Dietro la semplicità dei megaliti salentini si celano genti evolute e ben organizzate, protagoniste nell’età del bronzo dei traffici commerciali nel cuore del Mediterraneo!

Indipendentemente dalle domande ancora senza risposta, resta una certezza: i costruttori dei megaliti salentini non erano solo pastori e agricoltori, ma avevano una padronanza non indifferente nell’arte della navigazione, erano dediti ai commerci e armati con spade di bronzo e alabarde di rame, non disdegnavano certo la guerra di rapina e di conquista!

I numerosissimi insediamenti che punteggiavano nell’età del bronzo la costa della Puglia e in particolare del suo lembo meridionale, attestano una forte propensione verso il mare e i traffici marittimi, di quei popoli.

Le mire espansionistiche dei salentini verso l’arcipelago maltese non sono una scelta casuale, ma frutto di un calcolo preciso. Non è certo la prospettiva di impadronirsi di pascoli e terre fertili, o di importanti giacimenti minerari, che può spiegare l’occupazione di quelle piccole isole, peraltro sensibilmente lontane dalla costa. L’esiguità del suolo coltivabile e il clima, almeno oggi, molto secco, sono infatti fattori poco favorevoli all’agricoltura, come all’ allevamento, e il suolo dell’arcipelago è inoltre privo di risorse minerarie economicamente interessanti!

Occupare l’arcipelago maltese al centro del Mediterraneo, voleva dire prendere possesso di un punto strategico, fondamentale per controllare i traffici tra Mediterraneo Occidentale e Orientale.

Dal Salento passava l’importante ‘via dell’ambra’, una rotta commerciale che risaliva l’Adriatico e che portava nei paesi mediterranei, la sacra ambra dai vitrei, caldi riflessi solari e dalle ‘magiche’ proprietà elettriche, proveniente dai Paesi Baltici e il raro  stagno  estratto sui monti metalliferi della Boemia, indispensabile perchè legato al rame, metallo di più facile reperimento, permetteva la produzione del bronzo, lega appunto di rame e stagno. 

Sin da epoche più antiche lungo l’Adriatico si svolgeva il traffico della selce estratta sul Gargano.

 

 

 

 

 

Figura 6: si noti la centralità delle due aree, Salento e Malta, nel Bacino del Mediterraneo. Centralità da cui si comprende l’interesse economico di natura commerciale che derivava dal dominio di entrambi i territori;  quello stesso interesse che mosse i salentini dell’età del Bronzo, ad insediarsi nelle isole maltesi, e forse a decimare la popolazione isolana eneolitica.

 

 

L’interesse dei popoli salentini verso le rotte occidentali era molto antico e derivava dalla necessità di rifornirsi della ossidiana estratta nelle isole Eolie.

Sviluppatasi in questo contesto, la ‘civiltà dei megaliti salentina’, ebbe modo di entrare in contatto con numerose culture, e prosperare anche attraverso l’attività del commercio.

La volontà di estendere il dominio proprio al cuore del Mediterraneo, e le capacità belliche e comunque strategiche e logistiche che l’insediamento a Malta rivela, ci presentano un popolo salentino meno arretrato e disorganizzato di quanto si era fin ora soliti credere; un popolo che certamente  esercitava già un controllo diretto sui traffici della ’via dell'ambra’, che passavano necessariamente attraverso il Canale d’Otranto.

Malta poteva diventare una importante base per estendere i commerci e la ricerca di rame e delle stagno verso il Mediterraneo Occidentale, in un epoca, quella del bronzo, in cui la domanda di questi metalli stava crescendo esponenzialmente.

Le tribù iberiche commerciavano lo stagno, estratto nelle isole Cassiteridi nel Mar del Nord, cosicché i salentini impossessandosi di Malta e conservando il controllo del Canale d’Otranto, potevano controllare le due principali vie di approvvigionamento di stagno per il Mediterraneo Orientale e l’Egeo: la ‘via dell’ambra’ e le rotte verso la  Penisola Iberica.   

    Oreste Caroppo.

 

Considerazioni finali sulla numerosità dei menhir pugliesi

 

Più estendo le mie ricerche più mi accorgo con meraviglia della impressionante densità di menhir, che un tempo doveva rivestire il territorio e di cui le cospicue testimonianze di oggi, costituiscono solo la punta di un iceberg se paragonate a quella antica moltitudine. Una densità che rivaleggia perfettamente con quella di altre realtà megalitiche più famose nel mondo. Una densità tanto alta che deve indirizzare la ricerca verso uno studio topografico attento al fine di svelare quali significati e relazioni si nascondono dietro questa vastità ed estensione del complesso fenomeno megalitico pugliese!

 

Antichi sacrifici all’ombra dei menhir

 

<<Da lato al menhir, si dissotterrarono dei sepolcri con scheletri giganteschi>>

Una segnalazione molto singolare, risalente alla seconda metà del ‘800, ci permetterà di far luce sugli antichi riti, che si svolgevano all’ombra dei menhir di Puglia, e fornirà indirettamente un primo dato relativo alla datazione minima, almeno di uno di essi.

Accenneremo inoltre, al rapporto che nell’età del ferro le popolazioni japige, avevano con gli antichi menhir della loro terra e con il culto betilico, che aveva portato le più antiche popolazioni della regione a erigere quei possenti megaliti.

Nota: principali toponimi e nomi etnici della Puglia in età del ferro.

Japigia è il nome antico della Puglia e deriva da quello delle popolazioni che la abitarono nell’età del ferro, gli japigi, che si possono dividere in messapi  e apuli. I messapi (detti anche salentini o sallentini o anche calabri), abitavano il Salento, il lembo meridionale della regione, identificabile grossomodo, con le attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto e chiamato in antichità anche Messapia  o Calabria.. Gli apuli si dividevano in peuceti o peucezi, che abitavano la Peucezia, la parte centrale della regione tra la Penisola Salentina e il Tavoliere delle Puglie  e i dauni che abitavano la Daunia più a Nord,  comprendente grossomodo il Tavoliere, il promontorio del Gargano e l’Appennino Dauno. Gli japigi comprendono popolazioni culturalmente e anche etnicamente con forti legami tra loro, nate dall’unione delle genti che popolavano la regione in età del bronzo, gli ausoni con gruppi di illiri, greci e cretesi giunti nei secoli tra la fine dell’età del bronzo e gli inizi dell’età del ferro.  In età del ferro la vicina regione Basilicata era abitata dai lucani, chiamati anche enotri . Questi vivevano in quelle terre già in età del bronzo ed erano etnicamente e culturalmente vicini al sostrato più antico delle genti di Puglia, gli ausoni.

Cratere apulo a figure rosse del IV sec. a. C.,  Museo d’Arte di Filadelfia. Scena di sacrificio. É rappresentato un tipico sacrificio della Puglia del IV sec. a. C., che vede nel caso specifico una pecora offerta in olocausto.

Foto tratta da www.museum.upenn.edu

Lo studioso che ci fornisce il prezioso dato è  Luigi Maggiulli, un noto avvocato di Muro Leccese, appartenente ad una delle più facoltose famiglie di quella città e grande appassionato di antichità e storia patria.

Vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, può essere ritenuto il primo vero iniziatore degli studi sul megalitismo nell’entroterra otrantino.

Nella sua “Monografia su Muro Leccese” edita in Lecce dalla Tipografia Editrice Salentina nel 1871, nel paragrafo sugli ‘Antichi Monumenti’ della sua città, il Maggiulli descrive un menhir che ancor oggi possiamo osservare nel territorio di Muro, il Menhir Croce Sant’Antonio. Questa suggestiva pietrafitta si colloca con i suoi 4,20 m di altezza, tra i più alti menhir di Terra d’Otranto.

Sorge in contrada Zicche, al centro di un crocevia, in un largo detto ‘Largo Sant’Antonio’.

Relativamente a questo monumento lo studioso aggiunge l’importantissima notizia:

<<da lato -cioè di fianco al monolite- si dissotterrarono dei sepolcri con scheletri giganteschi>>.

Il Maggiulli aveva poco prima raccontato dei numerosi sepolcri, che si rinvenivano nel territorio della città; molti di essi dice, erano ‘cavati nel  monte’, cioè scavati nel banco di roccia affiorante, e probabilmente, anche scavati nel banco roccioso, erano quelli nel Largo Sant’Antonio.

Muro è un antica città messapica, il cui nome originario o almeno la contrazione di questo, era ‘MIOS’, come possiamo dedurre dalla lettura della ‘mappa di Soleto’, un frammento di vaso fittile dipinto di nero, usato come base per scrittura (un ‘ostrakon’), con incisa una antica mappa del Salento, risalente al V sec. a. C., e ritrovato recentemente perfettamente in stato, in uno scavo archeologico condotto nella non lontana città messapica di Soleto.

Possenti mura del IV secolo a. C. ancora circondano l’antico abitato di Muro. I numerosi sepolcri descritti dal Maggiulli, erano tombe messapiche, che ancor oggi lì si rinvengono numerose.

Quelli però trovati in Largo Sant’Antonio avevano qualcosa di anomalo, contenevano <<scheletri giganteschi>>.

Si trattava di ossa molto grandi, che dovettero impressionare la gente del villaggio, che favoleggiò  fossero le reliquie dei giganti, che avevano innalzato i menhir e i grandi macigni squadrati, che costituivano i resti delle ciclopiche mura messapiche.

Il Maggiuli però non accenna a nessuna suppellettile o corredo funebre ritrovato nei ‘sepolcri’ intorno al menhir Croce Sant’Antonio, mentre sappiamo che nei normali sepolcri messapici qualche suppellettile si rinviene quasi sempre, poiché i messapi erano soliti accompagnare i defunti nel loro viaggio nell’aldilà, con un corredo funebre proporzionale alle capacità economiche del trapassato e della sua famiglia, e differenziato a seconda del sesso, dell’età, della posizione sociale e dell’attività svolta dall’uomo accolto nella tomba.

Rivalutando con maggiore rigore scientifico i dati a disposizione e alla luce della maggiore conoscenza, che oggi abbiamo sulle caratteristiche anatomiche ed etniche dei messapi e delle antiche genti del Salento, possiamo certamente escludere che si trattasse di resti umani.

Al più in verità, potremmo pensare che si trattasse dei resti di un raro individuo malato, affetto da gigantismo, ma i sepolcri con <<scheletri giganteschi>> in largo Sant’Antonio erano più di uno, poiché lo studioso parla al plurale (<<sepolcri>>, <<scheletri>>), e il gigantismo è una patologia così rara da permetterci di escludere, che tutte quelle buche fossero tombe di ammalati di gigantismo!

Le ossa scambiate per scheletri di giganti, erano molto più presumibilmente, ossa di animale, forse cavallo o bue, e gli scavi nella roccia in prossimità del menhir Sant’Antonio, interpretati per analogia con le tombe ‘scavate nel monte’, come sepolcri, altri non erano invece, che fosse legate ai sacrifici che si officiavano all’ombra del menhir.

Lì si offrivano in olocausto alle divinità e forse anche agli spiriti dei defunti animali di grosse dimensioni; il sangue, il grasso e le ossa erano riversate nella fossa, le parti più prelibate erano fatte oggetto di pasto rituale. Presso i greci sappiamo ad esempio, che era consuetudine offrire agli dei solo il grasso e le ossa degli animali sacrificati, in particolare dei tori veniva offerto l’osso della coscia.

 

Menhir Croce Sant'Antonio, nel largo omonimo a Muro Leccese.

Si noti la presenza di un edicola votiva nei pressi del menhir, oggi scomparsa, certamente ospitava un affresco di Sant’Antonio, il santo cui era dedicato quel largo, crocicchio di strade. Si tratta di un edicola del tipo molto diffuso nell’entroterra otrantino: edicola monolitica ospitante di solito un affresco a motivo religioso, chiamata in vernacolo, ‘cunneddha’, diminutivo di ‘icona’, termine greco che significa "immagine sacra".

Porre un edicola vicino ad un menhir è uno dei molteplici modi in cui i menhir salentini furono cristianizzati.

Qui inoltre la cristianizzazione si evidenzia nel nome stesso del menhir, chiamato dai locali "croce".

 Foto biblioteca di Luigi Maggiulli

Sacrificio di un toro rappresentato su un mosaico romano del II-III sec. d. C. Ostia antica.

Foto tratta da www.ostiantica.it

L’usanza di versare il sangue delle vittime sacrificali per terra affinché fosse assorbito da questa, e in particolare il grasso e le ossa in fosse scavate nelle aree sacre, è una pratica diffusissima nel mondo antico e anche in Terra d’Otranto, come rivelano ad esempio gli scavi archeologici condotti presso insediamenti e luoghi di culto dei messapi.  In questo modo le parti liquide e solide erano affidate alla terra e offerte al mondo ctono, degli inferi, ai defunti che alla dimensione sotterranea son legati, e dunque almeno ‘archetipicamente’,  alla Dea Mater, la Terra, Signora della vita e per contro anche della morte; il fumo degli arrosti sacri saliva invece al cielo ed era offerto agli dei celesti e al Padre Supremo, il Dio del Cielo e del Sole. Si bruciavano, in quei riti pagani, anche foglie e rametti di piante aromatiche, affinché il profumo di queste salisse al cielo (e il termine ‘profumo’, derivato dal latino, ricorda etimologicamente queste antiche pratiche, e vuol dire infatti letteralmente: odore emesso ‘attraverso il fumo’).

Il menhir ponte eretto tra il cielo verso cui si protende e la terra in cui è confitto, era il monumento perfetto all’ombra del quale celebrare questi riti di ricongiunzione degli uomini col mondo divino.

Compiere riti di sacrificio all’ombra del menhir è una pratica ovvia e scontata.

Approfondendo il culto betilico e i suoi aspetti più profondi, psico-antropologici, si giunge a questa previsione; non solo, la studio approfondito di quei culti molto lontani dal nostro modo di pensare, la conoscenza delle religioni antiche e della mitologia, mi permettono di non escludere persino riti ben più cruenti, che prevedevano il sacrificio di esseri umani! Punti che affronteremo solo dopo aver introdotto i concetti basilari del ‘culto betilico’.

Il ritrovamento degli <<scheletri giganteschi>> e delle fosse sacrificali dunque non meraviglia, ma mostra solo come in effetti il menhir, dalle molteplici valenze simboliche e pratiche, era percepito in antichità come ‘colonna  betilica’.

I significati archetipi del menhir ovvero della colonna, quale legame tra cielo e terra, l’uomo e il divino e l’uomo e il territorio, la correlazione spaziale con quelle che ci appaiono quali fosse sacrificali, e l’unicità di queste nel territorio di Muro Leccese, ci convincono, in mancanza ahinoi, di alcuno scavo archeologico serio ai piedi dei menhir salentini, della correlazione temporale: fosse sacrificali-menhir, che non esclude essere il menhir ancora più antico.

Non possiamo certamente stabilire, in assenza di ulteriori dati, l’età a cui risalivano quei sacrifici di Largo Sant’Antonio. Si tratterebbe di un dato cronologico, che fornirebbe un'importante indicazione sulla "età minima" del monolite.

Possiamo però con certezza escludere, che quei riti cruenti, siano successivi alla affermazione del cristianesimo nel Salento, che iniziò a diffondersi per altro molto presto, se come raccontano le leggende, fu davvero l’apostolo Pietro a predicare il Verbo di Cristo in terra salentina.

Con il raggiungimento della piena evangelizzazione del Salento, cessarono tutti quei riti pagani che prevedevano il sacrificio di animali agli Dei.

Approssimativamente possiamo dunque dire che i riti sacrificali testimoniati in Largo Sant’Antonio, non sono successivi al IV-V secolo d. C., e di conseguenze lo stesso dobbiamo ipotizzare per quel grande menhir lì ubicato.

Dunque se non già all’età del bronzo, quei sacrifici di grossi animali risalgono almeno alla prima età del ferro, o all’epoca messapica o a quella romana!

 

Nel culto messapico e apulo della colonna, l’eco della religione dei menhir

 

Tutta la cultura japigia è intrisa del "culto della colonna e della stele", certamente derivato, come credo, dall’incontro del gusto estetico ellenico con il ‘culto del menhir’, trasmesso agli japigi (messapi e apuli) dal sostrato autoctono dell’età del bronzo di cultura megalitica, che si integrò e fuse con le genti illiriche, cretesi e greche, che si stabilirono nel Salento agli albori della civiltà messapo-apula (fine età del bronzo-inizi età del ferro).

In tutta la Puglia, presso gli japigi, ritroviamo un culto particolare per la pietra, quale oggetto privilegiato di contatto dell’uomo col divino; pietra appunto come il menhir, disposta verticalmente e a volte persino conficcata nel terreno, ora come stele monolitica, ora come semplice colonna con capitello senza alcuna architrave o funzione architettonica, ora come pietra informe, ora squadrata o rifinita in altro modo, semplice o arricchita da decorazioni, petroglifi graffiti o a rilievo, pigmenti e iscrizioni incise, ora figurata, ora scolpita in statua-stele antropomorfa.

Un culto per la pietra, così radicato che si diffuse come mostreremo persino nelle colonie magno-greche, che più di altre gravitavano nel mondo  Japigio, la dorica Taranto, e l’achea Metaponto, e che con differenziazioni locali ritroviamo in tutta la Puglia dalla Daunia fin nelle ultimi propaggini del Salento e con continuità dal IX-VIII sec. fin  nell’epoca romana.

Tipica colonna votiva messapica. Ricostruzione sulla base del ritrovamento di un capitello a Cavallino. Estratto da un lavoro del Dipartimento di Archeologia dell’Università degli Studi di Lecce

Cratere apulo a figure rosse

(recipiente per mescere il vino con acqua),

alto 80 cm. Puglia 320-330 a. C.

Si noti al centro è rappresentata una colonna

semplice decorata con nastri, e bende,

posta su un alto basamento.

 

Foto tratta da www.museum.upenn.edu

 

Un argomento di estremo interesse, che approfondirò in un prossimo intervento, e che è necessario trattare  per comprendere i legami col più antico megalitismo pugliese, di tutti quei culti dell’età del ferro a ‘matrice litolatra’ (cioè includenti una sorta di venerazione per la pietra), che deve essere sempre considerata alla luce delle molteplici valenze magico-religiose, che la pietra assume. Non solo, procedendo a ritroso, lo studio del ‘culto del cippo’ e ‘della colonna’ in età del ferro, meglio documentato dalle fonti e dall’archeologia, dà in parte la possibilità di far luce anche sui riti e sulla religione più antica, oscura e complessa, praticata in Puglia in età del bronzo e ancor prima, e che quei culti stessi originò.

La vicinanza del menhir Sant’Antonio, con l’area messapica di Muro, le pratiche rituali che si svolgevano ai suoi piedi e la sua correlazione con vetuste strade di una certa importanza già in epoca in antica, mi spinge ad accennar qui, al ‘culto messapico della colonna’  (presente anche presso gli apuli come la produzione vascolare apula rivela), rimandando per ora il non meno rilevante e della medesima natura e genesi, ’culto della stele’.

In spazi aperti messapi e apuli, innalzavano colonne agli dei, semplici pilastri con capitello. Al di sopra vi si posizionavano una statua di divinità o un grosso vaso o un braciere o un elemento litico decorativo in forma di triangolo isoscele o qualche altro oggetto. Talvolta la colonna era semplice e non accoglieva nulla in sommità, a conferma dell’importanza a se dell’elemento ‘colonna’. Due capitelli di queste colonne sono stati repertati a Cavallino e a Ugento, due importanti città messapiche.  Hanno entrambi abaco ornato con rosette a rilievo. Il capitello di Cavallino ha echino particolarmente schiacciato e collarino con foglie schematizzate. La colonna a cui apparteneva il capitello ugentino, accoglieva sopra una pregevole statua bronzea di Zeus, ritrovata quasi integra e fatta risalire al 530 a. C. La statua rientra nella produzione dell’arte tarantina, e probabilmente come fanno supporre alcuni particolari stilistici, fu fusa a Ugento da maestranze tarantine o fu realizzata su precisa commissione e con le accortezze e le caratteristiche richieste dagli ugentini, nelle botteghe della colonia dorica.

Hydria apula a figure rosse (vaso per acqua). Puglia. Si noti al centro la colonna su basamento, ornata con bende. Foto tratta da www.arsantiqua-online.com

La colonna era ornata con nastri e ghirlande, come possiamo dedurre dall’arte figurativo-vascolare ritrovata in Puglia, e soprattutto in quella di fattura ‘apula’,  e si elevava in spazi sacri generalmente recintati e privi di copertura, proprio in modo da sottolineare il valore della colonna quale ponte tra cielo e terra, secondo i medesimi valori archetipi, che avevano ispirato già molti secoli prima l’erezione dei menhir.

Come si può dedurre dai ritrovamenti archeologici di materiale vascolare, altari e altri reperti associabili ai medesimi contesti cultuali, intorno al pilastro, si svolgevano, riti e cerimonie, che prevedevano libagioni, offerte di primizie ed ex-voto di vario tipo, statuine, vasellame, piramidette (vasi da telaio fittili) con in greco incise  formule di dedica, vasi miniaturistici, fibule, ecc.  Ai piedi della colonna, i messapi  sacrificali animali ai loro dei. Nelle aree sacre si son ritrovati anche altari costituiti da blocchi di calcare a pareti lisciate e spigoli arrotondati, con tracce di combustione, effetto dei fuochi accesi per bruciare foglie e rametti aromatici o vari prodotti della terra offerti al mondo divino o anche per arrostire le sacre carni dei sacrifici. Altri altari avevano semplici decori e a volte riportavano incise in greco o messapico, formule dedicatorie col nome della divinità invocata e a cui era consacrato l’altare o dell’offerente. Vi erano altari per i sacrifici e lo sgozzamento degli animali offerti in olocausto, di dimensioni variabili a seconda delle bestie, che vi si immolavano e a volte anche vasche monolitiche scavate in blocchi di calcare con foro nel fondo. Vi si versavano dentro le offerte e i liquidi sacri, come il sangue e il vino delle libagioni, che percolavano poi nella terra con cui la vasca monolitica era forse a contatto.

Si usavano a tal fine anche vasi appositamente preparati, con un foro nel fondo, e che venivano posati o seminterrati nel terreno.

 

Riproduzione grafica di una vasca con ampio foro sul fondo, di età arcaica, usata a mo’ di altare, recuperata a Cavallino nel corso degli scavi degli anni ’60 e ’70.

É scavata in un blocco parallelepipedo di calcare locale di altezza 10 cm, e base 18,5 cm X 29,5 cm. É decorata da una scanalatura sottile che corre lungo il bordo. Vi si versava il sangue dei sacrifici e le libagioni, e i liquidi, attraverso il foro, percolavano nel terreno con cui era forse posta in contatto.

 

Nota: animali e altri prodotti della terra sacrificati agli dei e ai defunti presso i messapi.

I messapi presso i quali ritroviamo una notevole complessità e varietà di culti, sacrificavano ai loro dei, quasi ogni animali selvatico e domestico, persino il cane. Tra gli animali di stazza maggiore, non solo il cervo, il maiale, il cinghiale e il comune bue, ma anche il cavallo di cui erano grandi allevatori. Come racconta uno scrittore latino nel II sec. d. C. (Festo in “Sul significato delle parole”), i ‘sallentini’, consacrato un cavallo a ‘Giove Menzana’ (‘menzana’, vuol dire ‘cavallo’ in messapico), lo gettavano vivo nel fuoco!

Inoltre, come sempre nella ritualità del mondo antico, anche presso i messapi non erano offerti solo animali a dei e spiriti dei morti, ma ogni altro frutto della terra, sia liquido, come acqua, latte, miele, olio, e il vino delle libagioni, sia solido, come semi di cereali, legumi, frutta, ortaggi ecc., poteva essere oggetto di offerta rituale. Non solo, sempre al fine di rivolgere l’offerta sia alle divinità celesti sia a quelle terrestri, una parte anche di queste offerte, era gettata nel fuoco, perchè bruciasse ed evaporasse, per salire in alto come fumo, l’altra era deposta su un supporto o direttamente a terra o gettata in fosse.

 

Gli antichi menhir per i messapi erano sacre colonne erette dagli antenati

I riti che si svolgevano ai piedi delle colonne messapiche, non erano dissimili da quelli che si celebravano ai piedi del menhir Sant’Antonio, e certamente di altri menhir salentini.

Ora però è impossibile dire se fossero dei messapi o di genti più antiche, le fosse sacrificali scambiate dal Maggiulli per sepolcri.

E quand’anche fossero stati i messapi ad officiare sotto il menhir, quei riti sacrificali, analoghi a quelli celebrati sotto le loro ‘colonne votive’, questo non ci stupirebbe.

Consideriamo infatti che alcuni menhir sorgevano addirittura all’interno della cinta muraria di città messapiche o in prossimità di queste, spesso lungo importanti assi viari e incroci (caratteristiche di ubicazione proprie ad esempio dei menhir di Muro Leccese e analoghe a quelle che ritroveremo per le stele messapiche, cippi (=stele) che la stessa Muro ha restituito numerose).

 Se non furono proprio gli stessi salentini dell’età del ferro ad erigere qualcuno di questi menhir, non possiamo non sottolineare come quei monoliti non furono distrutti e abbattuti sotto tutta la civiltà messapica.

Questo ci permette di capire quanto la sacralità di quelle antiche pietre fosse percepita ancora in Puglia presso gli  japigi.

Un altro dato sempre fornito dal Maggiulli, conferma ancor più questa continuità di culto o mera percezione di sacralità nei confronti del menhir in età del ferro.

necropoli e resti delle mura dell’antica città messapica di Manduria. Foto tratta dal sito  www.salentopoint.com

Menhir Trice, Muro Leccese.

Foto tratta da www.stonepages.com

 

 

Nel medesimo paragrafo sopra citato, il Maggiulli ricorda, che in Largo Trice, sorgevano agli inizi del secolo scorso, tre menhir vicini tra loro, di cui almeno uno collocato sopra un basamento di roccia naturale <<scheggiato grossolanamente col piccone>>; oggi ne rimane solo uno, il più grande dei tre, alto 4 m. Tutta l’area intorno a questi fu adibita a necropoli in epoca messapica, e lo studioso ottocentesco  infatti ricorda che  <<alla base - dei menhir - si ritrovarono nei passati tempi molti sepolcri scavati nel monte>>.

 Questa associazione antico menhir-necropoli messapica, suffragata nel largo Trice a Muro dall’archeologia moderna, ci fa capire quale alto significato i vetusti menhir avessero presso i salentini della prima età del ferro, di epoca classica, e poi ellenistica, tanto da collocare attorno agli antichi pilastri eretti dagli avi salentini, le loro dimore ultraterrene!

Una sacralità che i salentini non smisero mai di percepire anche in epoca romana e nella successiva epoca cristiana, quando introdotti come ‘croci’ e colonne votive nella nuova fede, i menhir continuarono ad essere oggetto di culto in forme, rituali e terminologie nuove, ma sempre riconducibili e fondate sulle stesse universali basi psico-antropologiche e magico-religiose.

Influssi maltesi nei menhir del Salento

                             L’anomala sezione del menhir Cutura

Il menhir Cutura, ubicato sulla provinciale Palmariggi-Giuggianello (vedi il mio intervento di  segnalazioni “Il Menhir Cutura”), è costituito da un blocco monolitico a sezione grossomodo quadrata. Viene meno un elemento molto diffuso tra i menhir salentini a pilastro squadrato, che è la sezione spiccatamente rettangolare. Le dimensioni della sezione del menhir Cutura, 59cm per 61cm, con un rapporto,

(lato min./lato max)=0,97(=59/61) vicino all’unità,, ci ricordano quelle di un menhir maltese, il menhir Il-Hagra tad-Dawwara sull’isola di Gozo (vedi tra i miei interventi: “Confronto tra menhir salentini e menhir maltesi” in “Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo”), di forma parallelepipeda, con sezione di 61cm per 64 cm, per un rapporto, (lato min./lato max)=di 0,95 (=61/64).

Altri menhir salentini squadrati aventi facce molto ampie, da 50 a 72 cm, non sono rari, ma non si osserva in nessuno di essi un rapporto tra le dimensioni dei lati della sezione tanto vicino all’unità, quanto per il menhir Cutura; si pensi ad esempio al menhir Malcantone di Uggiano la Chiesa, di forma grossomodo parallelepipeda a sezione rettangolare con lato maggiore di  lunghezza record 72cm, ma con il lato minore misurante circa 48 cm, per un rapporto solo di  0,67 (=48/72).

Figura 1: Menhir San Giovanni Malcantone in agro di Uggiano la Chiesa. Altezza 4m, sezione 70cm per 48cm. Si osservi l’alto basamento roccioso naturale o rozzamente rifinito, su cui si eleva il menhir. Foto tratta da www.stonepages.com .

 

 

Il menhir Cutura, mostra come nel Salento tra i menhir a pilastro squadrato, accanto a quelli a sezione rettangolare, ne esistevano alcuni, come il Cutura appunto, a sezione quasi quadrata.

É questo un ulteriore elemento di similitudine tra menhir salentini e maltesi! Anche i menhir a pilastro squadrato dell’arcipelago maltese hanno infatti talvolta sezione rettangolare (come il menhir Is-Salib, sull’isola di Malta), talaltra sezione quadrata (come il Menhir Il-Hagra tad-Dawwara sull’isola di Gozo).

 

Analisi delle decorazioni a forellini sulle facce del Menhir Cutura

Descrizione dei decori a forellini sulle superfici del menhir Cutura.

Figura 2: faccia a SE del menhir Cutura. Si notano piccoli fori sulla superficie. Foto O. Caroppo.

 

Sulle facce a SE e a SW si osservano numerosi forellini; le superfici della pietra anche in corrispondenza di questi sono ben levigate e protette da una patina di antichi licheni.

La densità di forellini è più alta sulla faccia a SW. Qui in maniera più evidente, si osserva un fitto ricamo di buchetti casuali e adiacenti l’un l’altro. I forellini hanno diametri medi da 1,5cm a 3cm e profondità fino a 2cm.

 

 

 

Figura 3: faccia a SW del menhir Cutura. Si osservi il ricamo di buchetti della superficie. Appare in alto una croce greca incisa, e ancor più in alto a destra, un grosso foro sullo spigolo a S. Per ulteriori dati sul menhir, vedi la segnalazioni “Il Menhir Cutura”. Foto O. Caroppo.

 

 

 

 

Discussione sull’origine antropica delle bucherellature della pietra.

Se ipotizziamo che i numerosi forellini siano riconducibili ad un semplice processo erosivo naturale comportante carie della pietra, dobbiamo ammettere che questo si è compiuto in età antica, dato che oggi, tale erosione(?) appare ormai stabilizzata; quelle superfici son infatti ricoperte e protette da una patina di antichi licheni.

 Sulle altre due facce del menhir non si osservano queste carie. Essendo la natura della pietra la stessa, il menhir è un blocco monolitico, per spiegare tale azione differenziata degli agenti esogeni, si dovrebbero introdurre ipotesi meteorologiche sulla direzione e intensità dei venti, che alla luce dell’orografia del territorio, e del clima del Salento si rivelano subito poco plausibili!

Lungo i piani di taglio in sommità, in testa, lungo gli spigoli smussati e arrotondati, così come lungo la smussatura dello spigolo S tra le due facce cariate, non si riscontrano forellini né alcuna rete di questi, come invece sulle due più ampie superfici del blocco descritte.

Per questo motivo dovremmo ritenere le smussature successive. Ciò nonostante ci meraviglia il fatto che il medesimo processo erosivo(?) non abbia poi interessato anche le smussature e le altre superfici in testa essendo la natura delle pietra la medesima!

Per risolvere la questione analizziamo quei processi erosivi che caratterizzano la pietra di cui è composto il menhir Cutura, il calcare locale salentino detto volgarmente ‘pietra leccese’, e che conferisce alla pietra un aspetto cariato paragonabile a quello del menhir Cutura.

La ‘pietra leccese’ è un calcare argillo-magnesifero, cioè una roccia sedimentaria, composta principalmente da calcite (carbonato di calcio, CaCO3).

Si è formata in seguito alla cementificazione di micro-granuli rocciosi, sedimentati sul fondo di mari o lagune, durante l’era geologica nota come miocene ( il miocene si estende in un arco di tempo geologico compreso tra 26 a 5,2 milioni di anni fa).

La ‘pietra leccese’ è un materiale litico di facile lavorazione appena estratto dalla cava.

Esposta però all'aria e agli agenti esogeni per qualche anno, indurisce sensibilmente; su di essa si impiantano alcune specie di licheni, che la ricoprono con una crosta formata da calcare e materia organica, che dà alla roccia grande resistenza agli agenti atmosferici e alla carie.

Se la pietra leccese viene però sottoposta a grandi pressioni, si microfessura e si sfalda con facilità.

Si osserva questo sulle superfici dei blocchi di pietra leccese usati nei muri portanti e collocati nei piani bassi delle abitazioni dove il carico è maggiore.

La pressione causa delle micro-fessurazioni che favoriscono, l’azione disgregante operata da:

1)    microrganismi e agenti esogeni, quali:

a)       vento,

b)     dilatazioni e contrazioni causate dall'escursione termica diurna e stagionale,

c)      dilatazione dei film d'acqua che infiltrati nelle fessure della pietra sotto forma di umidità, congelano nei mesi invernali e

d)     carsismo, l’erosione provocata da acque meteoriche acide poiché contenenti acido carbonico, prodottosi a seguito dell'assorbimento nelle gocce d'acqua piovana di anidride carbonica (CO2), presente nell'atmosfera; l’acido carbonico (H2CO3), converte il carbonato di calcio (CaCO3), costituente principale della roccia calcarea e composto poco solubile in acqua, in bicarbonato Ca(HCO3)2 , che è invece molto solubile in acqua, con conseguente erosione della pietra.

L’effetto finale sono superfici cariate che si presentano rugose, friabili e ‘farinose’ al tatto. La pietra gradualmente si trasforma in sabbia sciolta e il processo procede inesorabilmente coinvolgendo strati della pietra sempre più interni, mentre lo spessore della pietra si assottiglia.

Le carie si sviluppano sui blocchi sottoposti alla medesima pressione in maniera differenziata, a seguito del diverso grado di cementazione naturale della pietra, della diversa composizione della stessa e della differente percentuale di fossili o altre 'impurità' presenti nella roccia. Per questo nei piani bassi degli edifici si osservano blocchi fortemente aggrediti accanto ad altri meno cariati o quasi totalmente integri (vedi foto).

 

 

Figura 4: esempio di muro in pietra leccese eroso da carie e posto al piano terra di un edificio. Si tratta nello specifico di un palazzo del settecento nel centro storico di Maglie,  in provincia di Lecce. Qui la pietra usata per le costruzioni è il calcare locale detto appunto ‘pietra leccese’. Si consideri che ogni blocco di pietra leccese è alto circa 30 cm. Foto O. Caroppo.

 

Si osservi come le carie prodotte da questo tipo di erosione, l'unica della pietra leccese che potremmo chiamare in causa per spiegare l’aspetto delle superfici del menhir Cutura, sono in realtà ben differenti  dalle forature ricamate sul monolite.

La rete dei fori è nella tipologia di ‘carie da pressione’, molto irregolare, come si può osservare nel caso in figura. Si evidenziano, sui blocchi meno aggrediti, forellini di varie dimensioni e forme, distanziati tra loro; la superficie è percorsa da  venature di erosione. Sui blocchi fortemente aggrediti, più che semplici fori, appaiono numerosi ‘avallamenti’ anche molto ampi e sempre di forme e dimensioni molto variabili e irregolari.

Di contro il ricamo di fori sul menhir evidenzia decisamente una maggiore regolarità.

Nell’erosione da pressione poi tutte le superfici del blocco esposte all’esterno son interessate da carie, che coinvolgono pertanto anche eventuali spigoli, mentre le erosioni sulla faccia a SW del menhir si presentano quasi come incorniciate; si sviluppano solo in un riquadro interno alla faccia con bordi alla base e in sommità (dove è incisa la croce greca), praticamente intatti.  Sui lati della zona ricamata a forellini son assenti i fori sia sulle superfici grossolanamente smussate, sia su residue porzioni laterali non intaccate dalla smussatura.

Le creste tra i forellini nelle aree rugose interessate dal ricamo di fori del monolite, sono alla stessa altezza delle superfici non bucherellate, presenti sulle medesime facce.

 Queste osservazioni insieme all’aspetto non friabile ma compatto delle superfici bucherellate del menhir, portano inevitabilmente alle seguenti conclusioni.

 

Conclusioni dell’analisi sull’origine della rete di forellini e sul significato della croce greca, presenti sul monolite:

quella che oggi può apparire come mera opera erosiva, è invece ciò che rimane di un’antica e originaria decorazione megalitica delle superfici, fatta di numerosissimi, adiacenti e casuali fori realizzati con un trapano arcaico o con uno strumento a battente conico o martellando su un punteruolo.

Le forature appaiono prive di asperità, levigate da secoli di esposizione agli agenti esogeni.

Forse anche le altre superfici avevano simili decorazioni, ma certamente meno pronunciate della faccia a SW tanto da essere asportate nei secoli, dall’opera erosiva degli agenti esterni .

Possiamo ipotizzare questo con maggiore probabilità per il lato a SE, dove nonostante la levigatura delle superfici operata dalle intemperie, compaiono tracce di numerosissimi forellini, soprattutto nella porzione media e inferiore. Quello che però possiamo sostenere con più certezza, è che, come ancor oggi è possibile notare, la decorazione a forellini riguardava la faccia SW. Questa era forse già in origine la faccia più significativa del bethilos, come il suo decoro rivelerebbe. Proprio a causa di questo poi, fu su di essa e non sulle altre facce, che venne inciso un segno cruciforme, probabilmente in epoca cristiana per cristianizzare quel monumento e i suoi pagani ornamenti.

Già sui menhir pugliesi, anche non decorati, appaiono segni cruciformi, come anche su menhir maltesi e francesi, attendibilmente croci di cristianizzazione; e croci si ritrovano incise col medesimo intento cristianizzante, anche su pareti rocciose e rocce in aree di arcaica valenza religiosa, antichi luoghi di culto o sepoltura, soprattutto in corrispondenza di graffiti di origine ‘pagana’; si osserva questo diffusamente in Puglia come in altre località italiane, ad esempio su rocce dell’Arco Alpino interessate da manifestazioni di arte rupestre.

Nel menhir Cutura, la croce sintetizza i due intenti, quello di cristianizzare il menhir in quanto  monumento pagano e quello di cristianizzarne i decori, che nell’arte antica sottendevano profondi intenti magico-religiosi.

 

Confronto con decori tipici dei megaliti maltesi della ‘civiltà dei templi’

Figura 5: Accesso ad una camera interna, ‘sancta sanctorum’, nel tempio di Mnajdra a Malta. la costruzione del tempio risale al 3600-3300 a.C.  Si notino le particolari decorazioni a trapanature delle superfici della grandi pietre. Foto tratta da.. www.myrine.at .

 

 

Il tipo di decorazione del menhir Cutura, unico esempio per ora documentato su un menhir pugliese a pilastro squadrato, non trova al momento alcuna significativa comparazione con le altre rare forme di arte megalitica pugliese.

Un primo confronto è stato fatto con le decorazioni, che si rinvengono sulle stele antropomorfe e sui cippi pugliesi, italiani ed europei di epoca neolitica, calcolitica e dell’età del bronzo e del ferro. Questi talvolta presentano ampie superfici decorate con motivi semplici e ricorsivi, ma si tratta quasi sempre di rombi o triangoli, o altri elementi geometrici ripetuti con estrema regolarità, mai di fori adiacenti con posizioni caotiche, come sul menhir Cutura.

Prendendo in considerazione le diverse espressioni artistiche note dell’arte megalitica europea e mediterranea, l’unico e interessantissimo confronto che possiamo fare è con l’arte decorativa dei templi megalitici maltesi, risalenti all'epoca neolitica e calcolitica, ed espressione della cultura autoctona dell’arcipelago indicata come ‘civiltà dei templi’ ( 3600-2200 a.C.). 

Nel tempio di pietra di Mnajdra ad esempio o nel poco distante tempio di Hagar Qim sull’isola di Malta, molte delle superfici dei blocchi e delle lastre megalitiche presentano una decorazione di piccole adiacenti trapanature, che conferisce loro un aspetto paragonabile a quello riscontrato sul megalite oggetto di questo studio.

E proprio con l’arcipelago maltese, la cultura megalitica salentina presenta fortissimi legami.

Significativi elementi suggeriscono l’esistenza di antiche relazioni tra l’arcipelago maltese e il Salento, successive al 2400 a. C. ed evidenziate soprattutto dalle somiglianze strutturali e costruttive tra  alcuni dolmen salentini e quelli delle isole maltesi e tra i menhir delle due aree.

Figura 6: altare decorato con numerosi fori ciechi, con scolpito l’ albero della vita. Tempio di Hagar Qim, la cui costruzione risale al 3600-3300 a.C.,  (Malta). Foto tratta da www.wurzelwerk.at .

Figura 7: Menhir Cutura. Particolare del lato Sud-Ovest, porzione bassa. Si noti la somiglianza del decoro a fori sui due manufatti mostrati nelle foto. Foto di O. Caroppo.

 

L’archeologia ha dimostrato che prima del definitivo e improvviso tramonto, datato intorno al 2400-2100 a. C., la civiltà maltese dei templi visse una fase di lento declino, forse a causa di un aumento del clima secco, che comportò minore fertilità dei suoli, scarsità di cibo ed acqua potabile ed aumento delle malattie.

Segni evidenti di incendi e distruzioni nei templi, permettono di ipotizzare però che il colpo di grazia fu inflitto a quella millenaria cultura, da una grande invasione di genti provenienti con tutta probabilità dalla penisola salentina.

Oltre agli evidenti cambiamenti culturali, anche l’analisi approfondita degli scheletri dissotterrati negli scavi archeologici, ha permesso di rivelare la presenza nell’arcipelago in età del bronzo, di genti in discontinuità etnica con i maltesi costruttori dei templi di pietra.  Si è potuto evincere questo in particolare dalle differenti proporzioni craniche. Mentre i maltesi di epoca calcolitica erano brachicefali, i costruttori dei dolmen maltesi di tipologia salentina erano invece dolicocefali.

 

 

Nota:

  • Brachicefalia: conformazione del cranio con prevalenza del diametro trasversale su quello longitudinale.

  • Dolicocefalia: conformazione del cranio con prevalenza del diametro longitudinale su quello trasversale.

 

Sebbene non sappiamo con certezza assoluta se i salentini si insediarono in un arcipelago ormai quasi del tutto desolato dopo l’improvviso e misterioso tramonto della civiltà calcolitica maltese o se furono proprio questi a far strage della popolazione autoctona, dobbiamo comunque ritenere che tra i nuovi arrivati e le sparute genti superstiti, si realizzò nel tempo una profonda integrazione e fusione, con sviluppo di una comunità che potremmo definire salentino-maltese, e che dominò l’arcipelago almeno fino al 1500 a. C.

La cultura che si sviluppo nell’arcipelago sulle ceneri della civiltà precedente e con il nuovo apporto etnico e culturale salentino, è definita  ‘Tarxien Cemetery Culture’ (circa 2400-1500 a. C.).

L’ipotesi di un’occupazione salentina delle isole maltesi successiva alla scomparsa della civiltà neolitica ed eneolitica dei grandi templi, fu avanzata per la prima volta sulla base delle analogie dolmeniche, dall’archeologo Evans J.D. nel 1956 (Evans J.D.  ‘The Dolmens of Malta and Origins of the Tarxien Cemetery Culture’, "Proceed. Prehist. Soc.", vol.XXII :85-110, 1956).

Gli antichi templi di pietra o ipogei furono abbandonati, ma la loro sacralità rimase alta agli occhi dei nuovi occupanti, tanto che nei luoghi di culto templari, le nuove genti eressero talvolta i loro dolmen, di tipologia salentina; come avvenne ad esempio sulle rovine del tempio di Ta_Qadi sull’isola di Malta. (Vedi tra i miei interventi: “Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo”).

È pertanto probabile che la meravigliata osservazione dei decori delle grandi pietre del tempio di Mnajdra e di Hagar Qim, con superfici bucherellate con miriadi di fori vicini, realizzati con un arcaico trapano, abbia ispirato la decorazione a piccoli forellini, che osserviamo sul menhir Cutura.

La fusione con le genti autoctone favorì ulteriormente la predisposizione dei salentini dell’età del bronzo a recepire elementi propri dell’antica cultura maltese.

 

Figura 8: ingresso al ‘sancta sanctorum’ del tempio di Mnajdra. Si osservino le superfici decorate da fori disposti casualmente o secondo linee ondulate affiancate tra loro a riempire tutto lo spazio della superficie litica. Foto tratta da www.wurzelwerk.at .

Figura 9: Menhir Cutura. Particolare lato Sud-Ovest, porzione intermedia. Si noti la somiglianza del decoro a fori con quello presente nel tempio maltese. Foto di O. Caroppo.

 

 

Conclusioni:

 

Influssi maltesi sui menhir salentini

Influssi della cultura maltese si osservano nel menhir Cutura, non solo nei decori, ma anche nella forma e nelle dimensioni, che ci hanno portato a stabilire un più stretto legame di questo megalite con il menhir maltese di Il-Hagra tad-Dawwara, sull’isola di Gozo, anziché con i più classici menhir del Salento.

Il contatto con la civiltà maltese comportò per la cultura megalitica salentina, non solo l’introduzione di forme particolari di decorazione, ma influenzò anche e soprattutto come spiegherò meglio in un ulteriore intervento, l’evoluzione stessa del menhir pugliese verso la sua caratteristica e peculiare forma geometrica a pilastro squadrato, a partire da forme arcaiche più grezze e poco rifinite.

I reciproci influssi che in età del bronzo si ebbero tra le popolazioni che vivevano nell’arcipelago e quelle pugliesi, dopo l’insediamento in Malta di genti salentine, rivela come gli immigrati provenienti dal Salento, mantennero continui contatti con la terra d’origine; solo relazioni forti e prolungate di natura economica e culturale, possono infatti spiegare le influenze maltesi sul megalitismo salentino e pugliese, che stiamo sottolineando.

 

Importanza del Menhir Cutura

Tutte le precedenti riflessioni ispirate dalla scoperta e dallo studio del menhir Cutura, e numerose altre che presto riporterò sulla particolare altezza della pietra e sulla struttura di bacinelle e canalette, che si osserva in testa al menhir, ci convincono della grande importanza di questo monolite, per svelare i misteri che ancora circondano il culto betilico salentino di età protostorica.

La vicinanza di una piccola specchia accanto al menhir, ci ha indotto poi a sospettare che si tratti dei resti di un tumulo sepolcrale, cui il menhir era associato. Lo scavo archeologico del sito potrebbe così aiutarci a far luce su uno dei molteplici aspetti della complessa religione dei menhir, quello del legame con la ritualità legata alla morte e al rapporto con i defunti.

L’importanza di proteggere il sito e procedere ad uno scavo archeologico, è pertanto di primaria necessità.

 

Ricerca e analisi di petroglifi incisi sulle superfici di alcuni menhir salentini

Ispirati dall’osservazione dei numerosi forellini ciechi scavati sul menhir Cutura, stiamo procedendo ad uno studio più attento delle superfici dei menhir salentini, alla ricerca di antichi petroglifi, fori e decori. Riportiamo alcuni dei risultati sin ora ottenuti.

 

Analisi delle superfici del Menhir Franite in agro di Maglie

Su due menhir in agro di Muro Leccese, il menhir Sant’Antonio e il Menhir Miggiano, tracce di antiche picchettature ormai moto erose, sembra si possano distinguere ancora sulle loro superfici verticali.

Le osservazioni più interessanti e significative in tal senso, son però quelle fatte sul menhir Franite in agro di Maglie. Il menhir detto anche ‘Cruce-muzza’, è un pilastro squadrato alto 4,30 m , con sezione rettangolare di dimensioni 44 cm per 34 cm.

Le sue superfici maggiori si son mostrate punteggiate quasi interamente da numerose picchettature; forse un’antica  decorazione megalitica fatta non con fori ciechi adiacenti, ma con picchettature casuali e distanziate, che comunque coinvolgono tutta la superficie. Le picchettature hanno mediamente forma sub-circolare o più frequentemente sub-ellittica con asse maggiore orizzontale. Hanno grossomodo forma di coppelle profonde da 5 a 10 millimetri, con asse maggiore di circa 3 cm e asse minore di 2 cm circa.  Si osservano, anche numerosi, alcuni forellini di dimensioni molto variabili.

Ulteriori dati sulle possibili interpretazione di queste picchettature sulla superficie del menhir e sugli altri segni e croci incisi sulle sue facce, saranno esposti in un mio studio monografico sul Menhir Franite, e in una discussione approfondita sui petroglifi cruciformi presenti sui menhir pugliesi.

 

Analisi delle superfici del Menhir Croce Sant’Antonio in agro di Muro Leccese

Il menhir ha grossomodo forma di parallelepipedo con sezione rettangolare di 49 cm per 34 cm, e considerevole altezza di 4,20 m.

Oltre a ormai tenui e poco leggibili picchettature erose dal tempo e osservabili ad occhio nudo solo con opportuna inclinazione dei raggi del sole, in particolari ore del dì e condizioni meteo, si osservano sulle sue superfici, segni di trapanature ben più evidenti; alcuni fori di dimensioni maggiori e altri più piccoli, nonché alcune quasi impercettibili file di forellini molto erosi. Si segnalano due fori di pochi centimetri di diametro e profondi alcuni centimetri, posti alla base della faccia minore a NNW. Fori più piccoli, profondi un centimetro o poco meno e dello stesso diametro, si osservano un po’ dovunque sparsi sulla pietra.

Un foro rettangolare cieco si osserva sulla faccia maggiore a WSW a circa 1,1 m dalla sommità, una sorta di “occhio del menhir” (un foro particolarmente evidente che osserviamo in molti monoliti salentini e persino su alcuni menhir maltesi, circolare, sub-circolare o quadrato, di solito su una delle facce maggiori). Il menhir sul lato maggiore a WSW, presenta una frattura in sommità che taglia in maniera netta la bacinella presente in testa al menhir. Questa appare profonda oltre 20 cm. Mostra pareti dritte e base concava, ampia circa 20 cm.

Ma osservando attentamente le superfici appaiono tracce tenui di forellini allineati in file anche molto lunghe, che si estendono verticalmente e con ondulazioni lungo il menhir. Servirebbero però esami più attenti con tecniche di analisi ottica, delle superfici ormai molto erose e coperte da uno spesso strato di licheni. 

 

 

Figura 12: Menhir Croce Sant’ Antonio in agro di Muro Leccese. Nella foto a sinistra (vista del monolite da E ), si indica nel cerchietto rosso la porzione di menhir sulla faccia maggiore a ENE interessata dalla doppia fila di forellini, e mostrata nella foto a sinistra. (Foto O. Caroppo)

 

 

Si distingue nettamente un singolare allineamento di forellini disposti su due file parallele verticali leggermente incurvate (vedi foto).

Sono profondi un centimetro o poco meno e hanno diametro all’incirca di un centimetro.

Si osservano nitidamente sei forellini sulla fila di destra e quattro su quella di sinistra, disposti alla stessa altezza dei corrispettivi quattro fori più in alto della fila di sinistra. Forse il tratto in duplice fila punteggiata, faceva parte di una sequenza più lunga di forellini altrove, sul menhir ormai molto erosa.

I forellini del gruppo osservato sono tutti dello stesso diametro anche se i bordi sono variamente arrotondati da erosione delle superficie e parzialmente e in maniera differenziata coperti da spessi strati di licheni. I fori non son adiacenti ma leggermente distanziati tra loro.

Abbiamo eseguito un attento confronto con i fori realizzati nel calcare da vari animali locali (microrganismi, insetti, uccelli ecc.) che ci ha ulteriormente confermato l’origine antropica dei dieci forellini di questo petroglifo.

Si trattava di un elemento decorativo o di un particolare petroglifo con qualche valore simbolico legato al culto betilico.

Sul menhir non si notano croci incise evidenti, eccezion fatta per una incisione tenue e recentissima, che riproduce una piccola croce nella parte bassa della faccia minore a NNW.

Analisi delle superfici del menhir Bagnolo in agro di Bagnolo del Salento

Il Menhir ‘Bagnolo’, ubicato alla periferia di Bagnolo del Salento, ha grossomodo forma di parallelepipedo con sezione rettangolare di 46 cm per 31 cm, e considerevole altezza di 4,10 m.

Anche questo monolite ha svelato interessanti  sorprese una volto sottoposto a questa analisi.

Sulle sue superfici si osservano vari piccoli fori poco profondi ed erosi.

Il particolare più interessante è stato individuato sulla faccia minore a NNE; si tratta di una fila verticale leggermente sinuosa di piccoli fori strettamente adiacenti gli uni agli altri. Forse un antico petroglifo. I fori profondi pochi millimetri hanno diametro non superiore al centimetro (vedi foto).

Sulle superfici del menhir si osservano alcuni petroglifi a croce molto interessanti, fatti con soli piccoli forellini più profondi di quelli del petroglifo qui più attentamente descritto, e leggermente distanziati tra loro. Tratteremo di questi in un intervento specifico sui petroglifi cruciformi incisi sui menhir pugliesi.

Sulla faccia maggiore a WNW, si osserva molto in basso, quasi centralmente, un ampio foro cieco quadrangolare, forse legato alla stessa tipologia del grosso foro, che ritroviamo su numerosi menhir e che stiamo classificando come l’occhio del menhir.

 

Figura 13: nella figura a sinistra, menhir Bagnolo, è indicata col cerchietto rosso la posizione del petroglifo, mostrato ingrandito nella foto a destra, e ubicato sulla faccia minore del menhir orientata a NNE; la faccia che compare in ombra nella foto a sinistra. Foto O. Caroppo.

Considerazioni finali

La stessa ricerca sarà estesa ad altri menhir salentini.

Erosi nei secoli dagli agenti esterni, fori, coppelle e picchettature sui menhir, erano certo più numerosi e diffusi di quanto oggi appare.

La maggiore conservazione dei fori sulle pietre dei templi maltesi è imputabile alla maggiore consistenza del calcare dell’arcipelago (calcare a globigerina e l’ancor più consistente calcare corallino), rispetto alla ‘pietra leccese’, nonché alla minore piovosità ed escursione termica che si registra in quelle isole, dal clima ancor più secco di quello salentino e ancor più mite, per la forte azione stabilizzatrice sul clima che il mare comporta e per la maggiore vicinanza all’area tropicale, implicata dalla minore latitudine. 

Non escludo, che oltre alle croci di cristianizzazione e a segni cruciformi forse di più antica origine, che si osservano ancor oggi sui menhir pugliesi, un tempo vi fossero effigiati su questi anche altri petroglifi di valenza decorativo-simbolica, come sulle stele figurate degli japigi dell’età del ferro (messapiche e daune in particolare, quest’ultime solitamente antropomorfe), o sulle stele-statue antropomorfe di epoca eneolitica e dell’età del bronzo (come ad esempio sulle stele calcolitiche del foggiano ritrovate in località Sterparo Nuovo a pochi chilometri da  Castelluccio dei Sauri e Bovino, del III millennio a. C.).

É probabile che nell’intervento di cristianizzazione, oltre a incidere graffiti cruciformi e/o ad apporvi croci in sommità, sui menhir che vennero risparmiati dalla mera distruzione, si procedette anche alla cancellatura di antichi petroglifi e di epigrafi di epoca messapica o romana, che forse così come facevano sulle loro stele votive e sepolcrali, le popolazioni japige e poi japigio-romane incisero anche sui vetusti e venerati menhir.

La lingua simbolica di quei petroglifi dalle valenze magico-religiose e le epigrafi in messapico, greco, o latino, che invocavano spesso divinità dei pantheon pagani, non potevano essere tollerate nella riconversione cristiana dei menhir. Iscrizioni e graffiti furono perciò abrasi o divelti grossolanamente. Alcune antiche deturpazioni, che si osservano oggi sulle facce dei menhir salentini, potrebbero essere il segno di quegli interventi di ‘evangelizzazione’.

Le nuove tecnologie di analisi ottica ed elaborazione informatica, messe a disposizione dell’archeologia, potrebbero svelare i misteri ancora celati sulle superfici dei numerosissimi menhir salentini, risparmiate dal tempo e dai cristiani, prima che l’erosione, il vandalismo e l’incuria consegnino all’oblio tutto questo importantissimo patrimonio culturale!

 

 

 
 
 

Oreste Caroppo (agapi_mu@libero.it)

 

 

Ultimo aggiornamento

15 dicembre 2006  

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