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La presentazione del professor

 

Franco Fasano

 

Quando si guarda alla vita o alla storia di un paese, capita che vi si guardi con l’occhio della nostalgia soprattutto. Si va alla ricerca di tracce del passato, prossimo o remoto che sia, per ricostruire modi e forme di vita che la nostra vita quotidiana sembra inesorabilmente aver sepolto. La nostalgia da sola non basta e non giustifica pienamente una ricerca. Credo che l’uomo che interroga il passato, sia esso lo studioso munito di adeguati strumenti per ricostruire la storia lontana o semplicemente l’appassionato del recupero di tradizioni locali ancora non del tutto tramontate, vada più in là della nostalgia, aspiri ad ampliare l’orizzonte della conoscenza.

 

Forse mai come nei nostri tempi veloci e anche un po’ troppo nervosi si è andati alla ricerca di quella che fu, in certi casi di quella che poté  essere, la realtà del passato. Che cosa spinge ad indagare in tempi remoti, a frugare con curiosità nei resti di civiltà di cui spesso molto poco ci è rimasto? Una passione di conoscenza che ci riguarda. Non basta “salvare” le tracce del passato, e quasi museificarle attraverso una catalogazione di reperti o un rosario di ipotesi e di congetture più o meno plausibili.

 

È necessario non ridare vita alle tracce del passato (nessuna realtà è mai veramente morta, e la trasmissione culturale è come un grande fiume che scorre con acque sempre nuove ma con movimenti uguali nei secoli e nel letto che le acqua si sono scavato); necessario è “sentire” la vita che c’è in quelle tracce e che viene restituita alla nostra conoscenza e in questo modo rimessa in circolo, inglobata nella nostra vita, nel nostro modo di pensare, nel riconoscerci a distanza di secoli con uomini che, in condizioni diverse, abitarono le nostre contrade, cercarono rifugi naturali o ne eressero di artificiali sia per ripararsi dalle intemperie, sia per costituire, in quegli spazi, una domestica unità, un nucleo di rapporti familiari, un nodo forte di sentimenti. È per guardare in questa realtà, dunque, che noi interroghiamo il passato attraverso tutte le possibili tracce che esso ha lasciato dietro di sé e che, cercate ed esplorate con attenzione e passione, ci permettono  - diciamolo con un’espressione alla buona – “di sapere qualcosa di più su come eravamo”.

 

Non accade che ognuno di noi si proponga di seguire un percorso che porti alla conoscenza del passato: tutti possiamo avere delle curiosità e desiderio di conoscenza, ma non tutti possediamo gli strumenti necessari a soddisfarli. E allora ci lasciamo, per così dire, prendere per mano da chi quegli strumenti li ha, li sa adoperare, e mentre consegna il resoconto delle proprie ricerche si adopera per trasmetterci l’intensità della sua passione.

 

Avuto tra le mani il bel libro di Pino De Nuzzo del quale parliamo questa sera, La casa a corte bizantina nel centro antico di Casarano, è stato proprio a questo che ho pensato: ecco un altro utile strumento per conoscere la storia del nostro territorio e per gettare uno scandaglio nella vita, soprattutto in quella quotidiana, degli uomini vissuti secolo fa.

 

Un’osservazione vorrei, intanto, appuntare sul titolo. L’argomento, come si può capire chiaramente, è ritagliato all’interno di una più vasta storia del territorio casaranese; anzi, è ritagliato dal più ampio quadro delle vicende storiche di Casarano. L’attenzione punta non, genericamente, su una tipologia costruttiva, la “casa a corte”, ma su una tipologia costruttiva vista “in situazione”, in un momento storico preciso e studiato nelle sue specifiche caratteristiche.

 

Vorrei osservare, anche, come De Nuzzo usa l’espressione “centro antico” al posto del più abusato, ed un poco generico, “centro storico”. In questa ultima denominazione, infatti, rientra tutto ciò che di storicamente interessante (strutture urbane, architettura religiosa e civile, insediamenti popolari, ecc.) si estende in un arco di tempo abbastanza ampio; con “centro antico”, più preciso e circoscritto, De Nuzzo porta in primo piano un periodo più ristretto ma che consente uno studio a distanza ravvicinata e la definizione di una tipologia di costruzione che nasce da circostanze storiche, da motivazioni socio-politiche, da un concorrere di fattori diversi. Ho osservato questo solo per sottolineare, giustamente apprezzandolo, lo scrupolo di De Nuzzo nel trattare l’argomento che si era proposto di affrontare e di svolgere.

 

L’aver messo a fuoco un tratto significativo non vuol dire aver rinunziato a dare un quadro ampio ed articolato nel quale quel tratto si inserisce e si spiega. Non ripercorrerò momento per momento le varie fasi dell’esposizione ma mi soffermerò solo su alcune osservazioni più generali, quelle che possono essere osservazioni  non di un “tecnico” della materia di cui parla il libro, ma semplicemente di un lettore curioso ed interessato.

 

In svelte pagine De Nuzzo informa sulle abitazioni sino all’alto Medioevo, e registra un’alternanza di progressivo/regressivo dovuto a circostanze storiche ben individuate. Colpisce il fatto, in un sistema che intendeva essere ferreamente organizzato (l’impero romano sia pure in fase di decadenza), che certe situazioni suggeriscono libertà d’iniziativa del “libero contadino”, come si legge a p. 21:

   L’insediamento [rurale] viene così creato dal libero contadino e non dal dominus, in modo spontaneo ed autonomo, nonostante il forte “dirigismo” tentato soprattutto da Diocleziano …

 

È un flash soltanto, ma che illumina una situazione che tende a sfuggire a delle stereotipe coordinate delle nostre conoscenze.

 

Dove occorre, De Nuzzo corregge acquisizioni che si danno per certe. Così a proposito della vita “in rupe”, cioè della sistemazione di singoli o gruppi in grotte usate abitualmente come abitazioni. Una persuasione diffusa era quella secondo la quale l’abitudine di promuovere le grotte allo status di unità abitative (chiamiamole così) risaliva ai monaci basiliani fuggiti dalla persecuzione dell’imperatore Leone III l’Isaurico noto per la sua avversione e per la guerra dichiarata alle immagini sacre: l’iconoclasta, per dirlo con un termine “tecnico”. De Nuzzo ricorda, a p. 22:

In realtà, come dimostrano le scoperte archeologiche e come aveva già fatto notare qualche studioso, l’importazione del vivere nell’habitat rupestre non risale alla venuta dei monaci italo-greci; è una tendenza riscontrabile già molto prima e anche gli esempi agiografici permettono di retrodatare questo modus vivendi al tardoantico.

 

Si è ancora, con questi richiami, in quel quadro generale nel quale si colloca il tratto distintivo riguardante un periodo  - visto attraverso una tipologia abitativa -  della storia di Casarano.

 

Anche l’indagine specifica su Casarano prende avvio da una ricognizione ad ampio raggio.

 

Un procedimento sentito come necessario per dare, poi, una giusta lettura degli elementi osservati. Avverte; De Nuzzo, che

Prima di iniziare ad analizzare la tipologia abitativa di Casarano bisogna fare un piccolo excursus storico della storia stessa del paese, al fine di individuare i luoghi per le analisi delle costruzioni da prendere in considerazione e quindi studiare la tipologia. (p. 32).

 

Caratteristico dell’abitato di Casarano, scrive De Nuzzo, è d’essere stato un «nucleo urbano in continuo movimento».

 

Questo carattere di vitalità sembra derivargli dall’essere, esso, posto all’incrocio viario di «strade d’una certa rilevanza». E De Nuzzo rintraccia i percorsi possibili di quelle strade: tratturi che collegavano luoghi non sempre vicini tra loro e tendevano da una parte verso Ruffano, da un’altra verso Gallipoli. Su quei percorsi si ritroveranno, più tardi, i pellegrini che da San Mauro di Gallipoli, passando per l’altura della Campana e incontrando e superando il Crocifisso, «lungo l’antica via messapica arrivavano alla Madonna della Strada di Taurisano».

 

De Nuzzo apre, con queste annotazioni, una pagina di grande fascino; distende davanti ai nostri occhi non semplicemente una carta con i tracciati delle strade, ma ci aiuta ad immergerci in un paesaggio reale che, al di sotto dell’aspetto assunto oggi, lascia intravedere la sua faccia remota e conferma, nell’evocato intreccio di quelle strade, nel passo degli uomini che le percorsero, l’azione delle lontane generazioni che le tracciarono e le utilizzarono.

 

Vorrei fermare qui un’osservazione, a questo proposito. Il merito di certe opere è, oltre quello di fornirci preziose informazioni, di ricostruire con vivezza un luogo, un tempo, un ambiente la cui suggestione nasce da un felice incontro del dato storico con la nostra immaginazione.

 

Sugli elementi forniti dalla ricerca, noi possiamo rivivere, immaginosamente, la vita dei nostri antenati lontani. Il libro di Pino De Nuzzo ha anche questo merito, questa capacità.

 

C’è un modo cordiale e coinvolgente che De Nuzzo usa per, direi quasi, prendere per mano il lettore e fargli “vedere” con immediatezza una situazione. Questo avviene quando il discorso abbandona per un momento il suo carattere di relazione oggettiva e procede ad una forma di coinvolgimento più diretto del lettore (o, se si vuole, dell’ascoltatore). Così, ad esempio, a p. 36:

Se voi iniziate a vedere il territorio sgombro da costruzioni, riuscirete a vedere come la posizione di una roccaforte in quel punto [la zona dell’Immacolata e del Calvario] era altamente strategica in quanto semicoperta dal promontorio dell’attuale piazza San Domenico, controllava tutto il contesto, lasciando ampio spazio discendente intorno a sé.

 

Un altro dei modi ai quali De Nuzzo ricorre per dare improvvise accensioni di vivacità al discorso è quello di introdurre delle domande, come in un questionario, e di fornire delle risposte. Più che un’impressione di procedimento didattico di natura scolastica, questa modalità del discorso avvicina ad una forma di conversazione.

 

De Nuzzo ricorda che, sotto il dominio bizantino, migranti “indirizzati” dall’Anatolia sul nostro territorio, erano visti, dal potere che ne favoriva l’emigrazione, come possibili difensori del territorio che andavano ad occupare. E chiede (e si chiede):

Cos’ebbero in dotazione questi coloni al loro arrivo nel Salento?

 

E risponde, e si risponde:

Solo un pezzo di arida terra da coltivare e dove edificare una costruzione da adibire a dimora per sé e per la propria famiglia.

 

Segue un’altra domanda:

 È giusto chiamare case a corte gli insediamenti primitivi esistenti nel centro storico di Casarano?

 

Qui la risposta si fa più articolata e si apre il colloquio con studiosi (De Nuzzo cita ampiamente Antonio Costantini) che si sono interessati dell’argomento prima di lui. Una lunga citazione introduce al nucleo centrale del discorso. Si individua la caratteristica delle antiche abitazioni di Casarano: esse hanno forma rettangolare con il lato lungo sulla strada. Due le tipologie fondamentali: con slargo anteriore l’una; l’altra, con un corridoio laterale. Non erano preoccupazioni di  natura estetica a determinare il posizionamento degli stabili, ma la necessità di risparmiare spazi. Le coperture, inizialmente sono con tetti di tegole sostenuti da uno strato di incannucciato; in seguito si passerà alla copertura a volta. De Nuzzo si sofferma a chiarire i vari tipi di volta fornendo utili indicazioni tecniche: utili, voglio dire, a chi voglia avere un’idea più precisa di tali costruzioni anche se non ha in proposito cognizioni tecniche specifiche.

 

Rapidamente vengon passati in rassegna gli ambienti che potremmo dire “complementari” dell’abitazione; l’ortale, nel quale «venivano coltivate tutte le verdure necessarie, per quanto possibile, al fabbisogno alimentare»; e la stalla, ricavata nello scavo prodotto dall’estrazione dei conci destinati alla costruzione: una situazione, questa, inusuale nella casa a corte salentina dove, solitamente, la stalla veniva costruita allo stesso piano dell’abitazione.

 

Distintiva della costruzione casaranese antica è la verticalità, che la differenzia dalla normale tipologia in cui prevale l’orizzontalità nella disposizione dei corpi di fabbrica. Quindi, conclude De Nuzzo,

Il nostro schema che tipologicamente, all’origine, è orizzontale nella tipicità della casa a corte, nel nostro caso, a causa della carenza degli spazi, diviene verticale con uno sviluppo, inizialmente sotterraneo e poi, [….] esteso al primo piano della costruzione originaria (p. 59).

 

Osservazioni molto interessanti contiene la parte dedicata al recinto. Dapprima il recinto fu un semplice segnalatore di proprietà. Quando progressivamente andò modificandosi provocò il determinarsi di uno spazio chiuso, interrotto solo dal portone d’ingresso.

 

La socialità diminuisce, aumenta la volontà di salvaguardare il privato. Se la semplice linea di confine non impediva la socializzazione, la tensione verso l’esterno, l’alzarsi dei muri e la chiusura progressiva indicano la volontà di sottrarre sempre più il proprio modo di vivere a una eccessiva esposizione socializzante. Questo processo, annota De Nuzzo, porterà al «distaccamento della famiglia dei figli da quella dei genitori, passando così dalla famiglia allargata alla piccola famiglia, ovvero quella odierna».

 

Il discorso di De Nuzzo si allarga a toccare, poi, altri aspetti legati alla tipologia dell’abitazione solo in ragione del suo fungere da supporto, per così dire, a manifestazioni della vita sociale.

 

Un aspetto ne è l’esternazione della spiritualità. Quando una processione passa per la strada, le famiglie che abitano in quella strada stendono lungo i muri le coperte più belle e ricche per onorare il santo in processione ma, in realtà, per dare un segno del loro status, della loro solidità economica. Da noi questa tradizione era legata particolarmente ad una processione solenne come quella del Corpus Domini.

 

Edicole sacre vengono collocate sui muri delle case e, in caso di trasferta dei proprietari, le immagini dei santi, se non dipinti sul muro, seguono i proprietari nella nuova residenza. Insomma, mentre la vita personale e familiare dà segni di interiorizzazione, o vuol sottrarre allo sguardo ed al giudizio altrui il proprio privato, la religiosità, che dovrebbe essere sentimento intimo, si esteriorizza e si spettacolarizza.

 

Quel tanto di socializzante che ne nasce perderà significato col tempo, e finirà per esaurirsi. Si esaurirà anche la modalità in cui un tempo si intrecciavano i rapporti del vicinato e la vita in comune nella strada. Il teatro naturale che era la strada verrà progressivamente disertato, e solo d’estate magari è possibile cogliere la sopravvivenza di qualche traccia.

 

De Nuzzo, e questo va ascritto a suo merito, non ha trascurato nulla nell’intento di fornire un’idea precisa non solo della casa a corte bizantina nel centro antico di Casarano, come promette  il titolo del suo libro, ma ha poi allargato il discorso a quelli che sono gli effetti che una modalità dell’abitare produce sulle relazioni interpersonali e di gruppo e sui più diversi aspetti della vita sociale. Il discorso, nonostante i necessari riferimenti “tecnici”, è conversevole; sicché tutti possono leggere con profitto il libro. Questo, poi, può stimolare qualche curiosità, sollecitare a saperne di più e quindi a far proseguire il lettore eventuale su percorsi anche più articolati.

 

Il corredo iconografico del libro non è subalterno alla parola; immagini e parole s’intrecciano e s’illuminano vicendevolmente per concorrere ad un discorso ricco, chiaro, suggestivo.

 

Un libro, questo di De Nuzzo, che può andare in molte mani con la sicurezza di essere ben accolto.

 

Esso corrisponde a quelle che sono le finalità di un C.R.S.E.C.: portare l’attenzione sulla cultura del territorio, favorire le conoscenze, stimolare l’interesse. Traguardi, a mio parere, tutti raggiunti da queste pagine ricche di richiami, di notizie, di curiosità. Ricche di storia: della nostra, naturalmente. Di quella storia alla quale anche noi apparteniamo e che ci appartiene.

 

F.FASANO

 

Pino De Nuzzo

LA CASA A CORTE BIZANTINA

(Il sistema abitativo-tipologico nel centro antico di Casarano)

ed.CRSEC Le 46-Reg.Puglia

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Ultimo aggiornamento:

 29 gennaio 2007