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                 Delle 
              amicizie pericolose di molti esponenti siciliani di Forza Italia. 
              E della strana politica che opera curiose selezioni: non emargina 
              i personaggi anche solo “inopportuni”, ma anzi li promuove. Con 
              gran rabbia delle “toghe rosse” 
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                    | Quando, 
              lunedi 3 agosto 1998, fu arrestato Giovanni Mauro, presidente 
              della Provincia di Ragusa ed esponente di Forza Italia, Enrico La 
              Loggia, capogruppo di Forza Italia al Senato, subito dichiarato: 
              Attenti a un nuovo caso Musotto. La persecuzione giudiziaria 
              (nemmeno più l’errore giudiziario) e diventata ormai spiegazione 
              esaustiva e giustificazione preventiva di ogni atto della 
              magistratura nei confronti di ogni esponente di Forza Italia, dal 
              suo leader all’ultimo degli aderenti. Un atteggiamento che ha fatto scuola: tanto che dopo l’arresto di 
              Francesco Schiavone detto Sandokan, boss dei Casalesi, il piu 
              ricercato tra i nuovi capi della Camorra campana, la moglie 
              rilascio ai giornali risentite dichiarazioni secondo cui il marito 
              era vittima di una persecuzione dei comunisti. La signora Sandokan, 
              evidentemente, ha imparato la lezione mediatica e, 
              democraticamente, ha applicato a se lo schema gia ampiamente 
              utilizzato in tanti casi da autorevoli esponenti della politica.
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               Giovanni 
              Mauro, a Ragusa, era stato arrestato con l’accusa di aver 
              riscosso tangenti, in una provincia ad alta densità mafiosa. Il 
              Musotto subito ricordato da La Loggia e, naturalmente, Francesco 
              Musotto, grande avvocato palermitano, presidente della Provincia 
              di Palermo, prestigioso esponente di Forza Italia, clamorosamente 
              arrestato nel novembre 1995, processato per concorso esterno in 
              associazione mafiosa e poi assolto in primo grado, nell’aprile 
              1998. Assolto: dunque innocente. E se innocente e Musotto, non può 
              esserlo anche Mauro? Nel giugno 1998 i magistrati palermitani avevano chiesto l’arresto 
              di un altro esponente di Forza Italia, Gaspare Giudice, deputato 
              in Parlamento, eletto nel 1996 nel collegio di Bagheria con il 54 
              per cento dei voti. Appena ricevuta la notizia, Silvio Berlusconi 
              aveva regalato ai cronisti una dichiarazione dalla sintassi 
              faticosa: Essendo Giudice vicecoordinatore di Forza Italia in 
              Sicilia e avendo avuto quindi rapporti con l’onorevole Micciché, 
              non si puo neppure immaginare alcun alone di dubbio intorno a lui, 
              perché altrimenti non avrebbe potuto avere quell’incarico.
 Giudice, comunque, fu salvato dal voto della Camera, che a 
              sorpresa (contro lo stesso parere gia espresso dalla Giunta per le 
              autorizzazioni a procedere) non concesse l’autorizzazione alla 
              custodia cautelare in carcere.
 Dopo l’arresto di Mauro, Cristina Matranga, esponente anomala di 
              Forza Italia in Sicilia (anomala in quanto poco propensa a unire 
              la sua voce al coro dei compagni di partito sempre all’attacco dei 
              magistrati della Procura di Palermo), chiese pubblicamente a Forza 
              Italia un’operazione di igiene politica. Il clima di quelle 
              settimane sembrerebbe giustificare la richiesta: all’arresto di 
              Giovanni Mauro, alle violente polemiche seguite al voto della 
              Camera su Giudice, si sommavano da una parte il coinvolgimenti in 
              storie di mafia di esponenti minori del partito, dall’altra 
              l’emergere di nuove accuse di contiguità con Cosa nostra rivolte a 
              Marcello Dell’Utri, che di Forza Italia puo essere considerato il 
              padre.
 Eppure a Matranga rispose, 
              autorevolmente, Gianfranco Micciché, coordinatore siciliano del 
              partito (e dunque diretto superiore di Giudice): Faccia i nomi. Un 
              tuffo nel passato più buio: chiunque abbia conservato un po’ di 
              memoria, ricorderà che questa era la formula magica, ripetuta 
              ossessivamente (Fuori i nomi! Fuori i nomi!), con cui negli anni 
              Ottanta era zittito chi osava anche soltanto porre il problema dei 
              pur evidenti rapporti tra mafia e politica.
 Faccia i nomi: questa volta i nomi erano gia su tutti i giornali; 
              eppure ormai non serve nemmeno più aggiungere la seconda formula 
              magica tanto di moda negli anni Ottanta (Fuori le prove!). Perché 
              lo schema interpretativo dei fatti, imposto con la forza dei media 
              e della ripetizione all’infinito, e quello della persecuzione 
              politica per via giudiziaria: quindi anche le prove sono ormai 
              impotenti. Inutili. Più fatti significa soltanto più persecuzione. 
              Nel momento stesso in cui si portano più elementi d’accusa, si 
              dimostra una più pervicace volontà persecutoria.
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              I fatti, in verità, non 
              mancano. Il 1 settembre era stato arrestato a Reggio Calabria, con 
              l’accusa di concorso in omicidi di ‘Ndrangheta, Giuseppe Aquila, 
              esponente di Forza Italia ed ex vicepresidente della Provincia di 
              Reggio. E a Roma un parlamentare di Forza Italia era entrato in 
              un’indagine su un traffico di droga. Senza che alcun particolare 
              filtrasse dalle maglie del segreto istruttorio, i magistrati 
              avevano messo sotto osservazione gli incauti rapporti tra un 
              onorevole azzurro e un esponente albanese: i due si sarebbero 
              incontrati a Roma e avrebbero discusso di politica internazionale, 
              a partire dal conflitto in Kosovo tra serbi e indipendentisti 
              albanesi. Niente di male, se non fosse per il piccolo particolare che 
              l’albanese in questione era in strettissimi rapporti con un 
              compatriota impegnato in grande stile nel narcotraffico. Ormai gli 
              albanesi sono attivi nel commercio di stupefacenti non piu solo 
              come gregari, ma anche come protagonisti, e stanno avviando 
              contatti per stringere quei rapporti politici che, sperano, in 
              prospettiva potranno proteggere, consolidare e far crescere i loro 
              affari.
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               Il 
              caso Musotto, ora che la polemica e svaporata, fornisce molti 
              elementi di riflessione su come Forza Italia gestisca i rapporti 
              tra politica e legalità. La vicenda ebbe il suo avvio l’8 novembre 
              1995, quando fu arrestato a Palermo Francesco Musotto, 
              esponente di Forza Italia proveniente dalle file del Psi, 
              presidente della Provincia eletto con ben 320 mila voti, massone, 
              avvocato di boss di primo piano in Cosa nostra (Raffaele Ganci, 
              mafioso della famiglia della Noce, quella che sta nel cuore di 
              Riina; i fratelli Graviano, organizzatori delle stragi del 1993; 
              Salvatore Sbeglia, fornitore del telecomando utilizzato per la 
              strage di Capaci; gli uomini del clan Farinella). Quattro giorni dopo l’arresto, il 12 novembre, Forza Italia 
              organizzo davanti al palazzo di giustizia di Palermo una 
              manifestazione di protesta contro i magistrati della Procura. In 
              prima fila il coordinatore regionale del partito Gianfranco 
              Micciché e il presidente dei senatori Enrico La Loggia.
 Il giorno dopo fu la volta degli avvocati: una cinquantina di 
              legali palermitani in toga, guidati dal presidente della Camera 
              penale Nino Mormino, manifestarono davanti al palazzo di giustizia 
              contro Giancarlo Caselli e i suoi sostituti.
 Musotto, insieme al fratello Cesare, era accusato di aver fornito 
              assistenza ai latitanti di Cosa nostra, di aver passato loro 
              notizie riservate sui provvedimenti giudiziari, di aver dato 
              ospitalità, nel giugno 1993, nella villa di famiglia a Pollina, 
              nei pressi di Cefalu, al piu sanguinario dei killer corleonesi, 
              Leoluca Bagarella.
 A un uomo d’onore che, dopo alcune pubbliche dichiarazioni 
              antimafia di Musotto, metteva in dubbio la sua fedelta ai 
              corleonesi, Bagarella rispondeva: Che ci vuoi fare? Non vedi che 
              lo attaccano tutti? Iddu cerca di difennisi. L’importanti e ca 
              iddu sia dda (Quello cerca di difendersi. L’importante e che 
              stia li).
 Il processo di primo grado si concluse il 4 aprile 1998, con una 
              assoluzione dall’accusa di concorso esterno in associazione 
              mafiosa. La sentenza sostiene che Bagarella fu effettivamente 
              ospite di casa Musotto e condanna il fratello Cesare. Ma ritiene 
              che l’accusa non abbia presentato elementi sufficienti a 
              dimostrare che di quell’ospitalita fosse a conoscenza anche 
              Francesco, che dunque fu assolto.
 Con il vecchio codice, sarebbe stata un’assoluzione per 
              insufficienza di prove. Ma a Forza Italia e sufficiente per 
              scatenare una nuova raffica di attacchi contro Caselli e la sua 
              Procura.
 Subito dopo l’assoluzione, Musotto, interpellato dai giornali, 
              dichiaro che non aveva intenzione di tornare alla politica. Ma fu 
              Silvio Berlusconi in persona, il 17 aprile 1998, al primo 
              congresso di Forza Italia, a chiamare sul palco Musotto, 
              presentato come una vittima della persecuzione dei giudici e 
              salutato come un eroe dalla platea. Tra gli applausi scroscianti 
              una vera ovazione il leader di Forza Italia lo ricandidò a 
              presidente della Provincia. Alleanza Nazionale, pur con qualche 
              isolato mugugno interno, accettò di sostenerlo. E il 25 maggio 
              1998 Francesco Musotto fu trionfalmente rieletto al primo turno.
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              Una politica sana, una sana 
              amministrazione avrebbero in ogni paese civile respinto un 
              personaggio che, anche penalmente innocente, aveva dimostrato di 
              non essere sufficientemente lontano dagli ambienti di Cosa nostra. 
              In quale regione d’Italia si sopporterebbe, se non altro per 
              motivi d’opportunità, un presidente con un fratello in galera per 
              mafia? Chi mai avrebbe il coraggio di candidare alla presidenza 
              della regione il fratello di un personaggio condannato per aver 
              ospitato nella villa di famiglia Leoluca Bagarella? Non tutti i fatti hanno rilevanza penale, certo, ma la politica 
              dovrebbe avere sufficiente autonomia di giudizio per soppesare 
              anche gli elementi che non entrerebbero mai in un’aula di 
              tribunale. Un’assoluzione processuale dovrebbe comunque essere 
              condizione necessaria, ma non sufficiente, per entrare nei ranghi 
              della politica. Invece la sentenza, ormai non accettata quando e 
              di colpevolezza, se e d’assoluzione viene sbandierata come un 
              merito, diventa di per se una garanzia di correttezza, perla da 
              inserire in curriculum, senza alcuna memoria per i fatti che 
              stanno dietro la sentenza. Questo sì è giustizialismo: ossia 
              schiacciamento della politica sulle vicende giudiziarie.
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               Il 
              caso di Gaspare Giudice è, se possibile, ancora più 
              istruttivo. In questa vicenda, gli elementi che l’accusa aveva 
              raccolto a carico dell’esponente di Forza Italia erano tali da far 
              escludere alla giunta parlamentare per le autorizzazioni a 
              procedere che ci fosse fumus persecutionis nei confronti del 
              parlamentare. Perfino il supergarantista Filippo Mancuso, in 
              giunta, non aveva avuto nulla da eccepire contro la richiesta dei 
              magistrati. Secondo l’accusa, Giudice era al diretto servizio della cosca 
              mafiosa di Caccamo, i cui uomini si vantavano di averlo fatto 
              eleggere e gli telefonavano fin dentro il palazzo di Montecitorio 
              per ricordargli la sua dipendenza e per ordinargli che cosa doveva 
              fare: Gasparino, guarda che siamo stati noialtri a metterti li, 
              gli ripetevano.
 Eppure la Camera dei deputati il 16 luglio 1998 (il giorno dopo la 
              terza condanna penale ricevuta da Silvio Berlusconi) boccio (303 
              voti a 210, con 13 astenuti) la richiesta d’arresto. Ancor più 
              grave, i deputati sottraggono al giudice elementi di prova: 
              impediscono (287 voti a 239, con 3 astenuti) l’utilizzo 
              processuale dei tabulati Telecom, quelli da cui vengono 
              documentati i rapporti e la dipendenza di Giudice dagli uomini 
              delle cosche.
 Attorno a Giudice si muovevano personaggi come Nino Mandara, 
              imprenditore, fondatore del primo club di Forza Italia a Villabate, 
              membro del direttivo provinciale del partito, grande elettore di 
              Giudice. Il figlio di Mandara, Nicola, nel 1995 era finito in 
              carcere con l’accusa di essere un killer di Cosa nostra. In 
              manette era finito anche un altro sostenitore di Forza Italia, 
              Roberto Campesi, titolare di un negozio di caramelle, che si era 
              fatto consegnare 160 milioni dai figli di un imprenditore 
              arrestato per mafia con la promessa di avviare una campagna 
              televisiva di delegittimazione dei magistrati, sostenuta da 
              Vittorio Sgarbi.
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              Quante storie di ordinaria politica 
              in terra di mafia. Quanti personaggi, per lo piu provenienti da Dc 
              e Psi, pervengono a nuova vita sotto le bandiere di Forza Italia e 
              si muovono disinvoltamente sul crinale tra istituzioni e 
              criminalità. Giuseppe Cilluffo, per esempio, era presidente 
              del consiglio circoscrizionale del quartiere Brancaccio, a 
              Palermo. Alla nascita di Forza Italia, aveva promosso la 
              fondazione di un club del movimento. Nel 1994 fu arrestato per 
              concorso esterno in associazione mafiosa, con l’accusa di essere 
              uomo a disposizione dei fratelli Graviano (imputati per le stragi 
              del 1993 e per l’omicidio di padre Puglisi).  
              Al processo di primo grado fu 
              condannato per favoreggiamento. Anche Franco Tusa, imprenditore palermitano nel settore 
              dell’abbigliamento ed ex vicesindaco socialdemocratico di 
              Monreale, nel 1994 si era scoperto una incontenibile passione 
              politica per Forza Italia, tanto da fondare un club a Monreale. I 
              suoi rapporti - con personaggi del calibro di Giuseppe Mandalari, 
              il commercialista di Riina - avevano spinto Miccichè a chiudere il 
              club e troncare ogni collaborazione.
 Con un arresto (nel luglio 1994) e una condanna per concorso 
              esterno all’associazione mafiosa denominata Cosa nostra, era 
              finita la brevissima avventura politica di Gianni Ienna, noto 
              costruttore palermitano. Il suo hotel San Paolo Palace domina il 
              quartiere di Brancaccio, regno dei fratelli Graviano. Proprio San 
              Paolo era stato chiamato il club di Forza Italia fondato da Ienna 
              e ospitato nei saloni dell’hotel. Mai riconosciuto dal movimento, 
              dichiarerà poi Miccichè.
 Certo e che, in quei saloni, il 5 febbraio 1994 Forza Italia 
              organizzo la presentazione ufficiale dei candidati siciliani alle 
              elezioni. A Ienna, considerato un manager di Cosa nostra, un 
              grande riciclatore del tesoro mafioso, dopo l’arresto sono stati 
              confiscati beni per 400 miliardi. Il costruttore aveva iniziato a 
              raccontare qualcosa dei segreti di cui e depositario, degli affari 
              delle cosche in Sicilia ma anche al Nord; poi pero ha ritrattato e 
              si e chiuso di nuovo nel suo pesante silenzio.
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               Più 
              complessa la storia di Ilario Floresta, imprenditore 
              siciliano nel settore della telefonia, anch’egli sceso in campo 
              nel 1994, sotto le bandiere di Forza Italia. Le aziende di sua 
              proprietà o del suo giro (la Fintel di Palermo, la Itel di San 
              Gregorio di Catania, la Siet di Bari, la Giesse di Mirandola in 
              provincia di Modena...) hanno anche ottenuto nel corso degli anni 
              ricchi subappalti dalle imprese telefoniche di Stato. Quando Floresta si buttò nell’avventura politica, Forza Italia lo 
              candido alla Camera nel collegio di Giarre, dove fu eletto con 
              oltre 33 mila preferenze. Una dote di voti che gli servì ad 
              arrivare fino alla poltrona di sottosegretario al Bilancio nel 
              governo Berlusconi.
 Ma gli investigatori della Dia (la Direzione investigativa 
              antimafia), analizzando i tabulati telefonici dei cellulari usati 
              dagli uomini d’onore entrati in azione per uccidere Giovanni 
              Falcone, avevano scoperto che Gioacchino La Barbera, uno dei 
              componenti il commando che esegui strage di Capaci, nei giorni 
              precedenti e seguenti la strage aveva comunicato anche con 
              cellulari intestati alla Fintel.
 
              Su Floresta erano scattate le 
              indagini. Con chi parlava La Barbera? E soprattutto, quali erano i 
              contenuti delle conversazioni? Una risposta fu fornita da La 
              Barbera stesso, che dopo essere stato arrestato aveva scelto di 
              diventare collaboratore processuale: erano telefonate di lavoro, 
              spiego La Barbera ai magistrati palermitani, perché la sua azienda 
              di movimento terra e trasporti (la Impedil Scavi) lavorava per la 
              Fintel di Palermo. Ma dunque un’azienda di Floresta, o comunque considerata dagli 
              investigatori nel suo giro d’affari, dava subappalti all’impresa 
              di un uomo d’onore di alta caratura come Gioacchino La Barbera. 
              Nessun rilievo penale, naturalmente. Floresta, del resto, ha 
              sempre sostenuto non solo di non conoscere La Barbera, ma anche di 
              non avere più il controllo diretto della Fintel dal 1987.
 Chiusa questa partita palermitana, per Floresta si apri un nuovo 
              capitolo: la procura distrettuale antimafia di Catania avvio 
              un’indagine su di lui in seguito alle dichiarazioni di un mafioso 
              diventato collaboratore processuale, Giuseppe Scavo, il quale ha 
              affermato di aver visto Floresta negli uffici dell’autoparco di 
              Sebastiano Sciuto, uomo d’onore calabrese del clan Ercolano, poi 
              arrestato in seguito all’operazione Orsa Maggiore. Le affermazioni 
              di Scavo sono rimaste pero senza conferme e riscontri, cosi la 
              procura ha chiesto l’archiviazione del caso.
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               Non 
              ha ancora una lettura univoca neppure la vicenda che ha per 
              protagonista Antonio D’Alì, 46 anni, senatore eletto a 
              Trapani nelle liste di Forza Italia. Nel 1994 raccolse 52 mila 
              voti. Alle ultime elezioni, ripresentato da Forza Italia, ha 
              superato se stesso, aggiudicandosi 5 mila voti in più e con ciò 
              conquistando la maggioranza assoluta dei suffragi nel suo 
              collegio: 51,4 per cento. Ha ottenuto un incarico parlamentare di 
              un certo rilievo, vicepresidente della commissione Finanze, e per 
              un breve periodo e stato il responsabile economico di Forza 
              Italia. La famiglia D’Ali Stati e una delle più potenti, facoltose e 
              riverite del Trapanese. Le immense tenute agricole, le saline tra 
              Trapani e Marsala, le molte proprietà e (fino al 1991) la quota di 
              controllo della Banca Sicula costituivano l’impero governato con 
              autorità da Antonio D’Ali senior, classe 1919, che fu direttamente 
              amministratore delegato della banca di Namiglia fino al 1983, anno 
              in cui fu coinvolto nello scandalo P2 (il suo nome era nelle liste 
              di Gelli) e preferì passare la mano al nipote Antonio junior, 
              quello che dal ‘94 siede in Senato.
 La Banca Sicula era uno dei più importanti istituti di credito 
              siciliani per numero di sportelli e per mezzi amministrati. 
              All’inizio degli anni Novanta la banca trapanese, gia corteggiata 
              anche dall’Ambroveneto di Giovanni Bazoli, fu acquistata e 
              incorporata dalla Banca Commerciale Italiana, alla ricerca di un 
              partner per superare la sua storica debolezza in Sicilia. In 
              seguito all’operazione, Giacomo D’Ali, professore associato di 
              Fisica, figlio di Antonio senior e cugino di Antonio junior il 
              senatore, e entrato a far parte del consiglio d’amministrazione 
              della Banca Commerciale.
 Dava lavoro a tanti, la famiglia D’Ali. Come Campieri ha avuto 
              membri delle famiglie mafiose dei Minore e dei Messina Denaro. 
              Francesco Messina Denaro, il vecchio capomafia di Trapani, fu per 
              una vita fattore dei D’Ali, prima di passare la mano - come boss e 
              come fattore - al figlio Matteo Messina Denaro, classe 1962, oggi 
              considerato il più fedele alleato dei Corleonesi, uno dei capi più 
              potenti (e ricercati) della nuova mafia siciliana, protagonista 
              della strategia corleonese delle stragi.
 A riprova dei rapporti tra la famiglia D’Ali e il boss, il 
              vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia Nichi 
              Vendola nel 1998 esibì i documenti che provano il pagamento a 
              Matteo Messina Denaro, ufficialmente agricoltore, di 4 milioni 
              ricevuti nel 1991 dall’Inps come indennità di disoccupazione. A 
              pagargli i contributi era Pietro D’Ali, fratello di Antonio il 
              senatore e di un Giacomo D’Ali che, negli anni Settanta, era stato 
              attivista di un gruppo neofascista siciliano (A proposito: ancora 
              tutti da approfondire sono i rapporti intercorsi in Italia tra 
              mafia, eversione nera e apparati dello Stato).
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                    Francesco Geraci, gioielliere di 
                    Castelvetrano, gran fornitore di preziosi alla famiglia di 
                    Toto Riina, ha raccontato di compravendite di terreni in cui 
                    i D’Ali e i Messina Denaro avevano ruoli non facilmente 
                    distinguibili. Fatto sta che l’immensa tenuta di Contrada 
                    Zangara, a Castelvetrano, un tempo dei D’Ali, e passata ai 
                    Messina Denaro (ma non risulta che sia stato pagato un 
                    prezzo) e oggi e stata confiscata come proprietà di Toto 
                    Riina, di cui Matteo Messina Denaro e risultato prestanome. 
                    Complicati e poco trasparenti, questi passaggi di proprietà: 
                    i D’Ali sono vittime di estorsione o complici dei Messina 
                    Denaro? E se sono vittime, perché non hanno mai denunciato 
                    l’estorsiomne?  |  
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               Anche 
              la Banca Sicula, prima di rigenerarsi dietro le rispettabilissime 
              insegne della Banca Commerciale Italiana, era stata oggetto di un 
              allarmato rapporto di un commissario di polizia, Calogero Germana, 
              che poi, trasferito a Mazara, aveva subito un attentato da parte 
              di Leoluca Bagarella in persona. Il rapporto ipotizzava che 
              l’istituto di credito fosse uno strumento di riciclaggio di Cosa 
              nostra. E sottolineava il fatto che come presidente del collegio 
              dei sindaci della banca fosse stato chiamato Giuseppe Provenzano, 
              il futuro deputato di Forza Italia e presidente della Regione 
              Sicilia, gia commercialista della famiglia Provenzano (l’altra, 
              quella dell’attuale numero uno di Cosa nostra). 
 L’acquisto della Banca Sicula da parte della Commerciale, come 
              altre operazioni simili realizzate con altri piccoli istituti di 
              credito del Sud, fu seguito con favore dalla Banca d’Italia, che 
              voleva favorire, più in generale, un’uscita indolore da situazioni 
              a rischio, oltre che d’infiltrazioni mafiose, anche di bancarotta 
              (per gestioni discutibili del credito, molto probabilmente dovute 
              anche alle pressioni criminali).
 Prima dell’incorporazione, la Banca Sicula aveva realizzato un 
              aumento di capitale di 30 miliardi. Da dove erano arrivati? Chi 
              aveva finanziato la ricapitalizzazione? Le domande, riproposte nel 
              1998 da Vendola in un rapporto inviato alla Vigilanza della Banca 
              d’Italia, sembrano destinate a rimanere senza risposta, mentre i 
              fantasmi del passato sono sepolti per sempre sotto le autorevoli 
              insegne della Banca Commerciale.
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                    | Giuseppe 
              Provenzano, intanto, si e prudentemente dimesso da presidente 
              della Regione. Per lotte interne a Forza Italia, piu che per le 
              interminabili polemiche sui suoi rapporti con Provenzano (quell’altro).
              Docente di tecnica bancaria all’università di Palermo, Giuseppe 
              Provenzano e un professore stimato e un professionista di 
              successo, tanto da aver ricevuto dalla Banca d’Italia l’incarico 
              di commissario straordinario della Banca Don Bosco di San Cataldo, 
              un piccolo istituto di credito siciliano usato da Cosa nostra per 
              riciclare denaro: l’intero consiglio d’amministrazione era finito 
              in carcere. Ma nel 1984 le parti si invertirono, fu Provenzano a 
              essere accusato di contiguità con la mafia: Giovanni Falcone lo 
              fece incarcerare come consulente finanziario della famiglia 
              Provenzano.
 Ma non si trovarono le prove che la sua fosse una complicità 
              cosciente. Le accuse caddero e col tempo fu dimenticata anche la 
              macchia di aver avuto tra i suoi clienti una presenza 
              imbarazzante: la moglie di Bernardo Provenzano.
 Di rapporti 
              con uomini della criminalità organizzata si e parlato anche a 
              proposito di due collaboratori di Berlusconi, Romano Comincioli e 
              Massimo Maria Berruti. Il primo, compagno di scuola e poi manager 
              e prestanome di Berlusconi, era in contatto con Gaspare Gambino, 
              imprenditore siciliano vicino a Pippo Calo, il cosiddetto cassiere 
              romano di Cosa nostra. Attraverso Comincioli, la Fininvest 
              realizzo affari con il faccendiere sardo Flavio Carboni. Cambiali 
              con girata di Comincioli passarono a uomini della Banda della 
              Magliana per poi finire nelle mani di Pippo Calo. |  
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                    | Berruti, ex 
              ufficiale della Guardia di finanza gia processato per corruzione 
              ancora prima di Mani pulite e poi prontamente arruolato nella 
              squadra Fininvest, e diventato avvocato del gruppo, per il quale 
              ha trattato, fra l’altro, l’acquisto del calciatore Gigi Lentini 
              (poi oggetto di un processo). Nel gennaio 19i94 Berlusconi gli 
              affido l’organizzazione della campagna elettorale di Forza Italia 
              a Sciacca e nella provincia d’Agrigento. Con buoni risultati, tra 
              i quali il coinvolgimento di Salvatore Bono (cognato del boss 
              dell’Agrigentino Salvatore Di Gangi) e di Salvatore Monteleone, 
              arrestato nel 1993 per concorso in associazione a delinquere di 
              stampo mafioso e appena uscito dal carcere diventato referente di 
              Forza Italia a Montevago. Per i suoi servizi, Berruti e stato 
              premiato con un posto in Parlamento. Con il Berruti avvocato e poi politico, convive il Berruti uomo 
              d’affari: in Sicilia possedeva una società, la Xacplast, che un 
              rapporto dei carabinieri indicava come partecipata da uomini 
              d’onore delle famiglie mafiose di Sciacca.
 Che 
              conclusioni (provvisorie) trarre, dalle storie di ordinaria 
              compromissione fin qui ricordate? L’interpretazione corrente 
              dentro Forza Italia e che le innumerevoli indagini contro 
              esponenti di quel partito siano, semplicemente, frutto di una 
              persecuzione: lotta politica per via giudiziaria; procuratori 
              della Repubblica e loro sostituti braccio armato della sinistra.
              Le molte inchieste che prendono di mira personaggi interni o 
              vicini a Forza Italia sono spiegate con una pervicace volontà di 
              indebolire, fino a liquidare, una forza politica vissuta come 
              avversaria. Le motivazioni di tale avversità? La diversa 
              collocazione politica (a sinistra) di tanti magistrati, 
              specialmente d’accusa (apostrofati dunque toghe rosse o, con un 
              salto di livello, appartenenti a un circuito di Procure rosse); ma 
              i meno rozzi tra i sostenitori di Forza Italia tentano spiegazioni 
              che vorrebbero essere piu sofisticate, sostenendo che molti 
              magistrati si sentirebbero investiti di una sorta di missione 
              morale che li obbliga a scendere in guerra - una guerra mortale - 
              come esponenti del Bene contro il Male.
 Nello scontro, psicologico prima che giudiziario, tra la Legge e 
              il Crimine, il sacro fuoco manicheo che li anima li induce a 
              individuare un Nemico da sconfiggere (Cosa nostra, ma anche Forza 
              Italia, per teorema nuovo referente della criminalità 
              organizzata).
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              Questa interpretazione e, a sua 
              volta, un teorema. Assume che i magistrati non badino tanto, 
              laicamente, ai fatti, alle prove, alle evidenze processuali, 
              quanto alla spinta religiosa (non a caso sono spesso apostrofati 
              come cattocomunisti) che li indurrebbe a condannare prima dei 
              fatti, ad avere certezze prima delle prove. I più spregiudicati tra i nemici delle Procure, comunque, si sono 
              gia spinti oltre quest’orizzonte: elevando un vero e proprio 
              elogio dei mascalzoni. Da Giuliano Ferrara (Mi sono simpatiche le 
              carogne, sono più umane dei feroci moralisti) a Ruggero Guarini 
              (Adoro quel furfante dell’avvocato Previti). Fino a Sergio Romano, 
              citato dal Foglio, che riprende la settecentesca Favola delle api 
              di Bernard de Mandeville, in cui una città sregolata, corrotta e 
              criminale produce, alla faccia dei moralisti, ricchezza e 
              sviluppo.
 Sulle singole vicende, le risposte sono piu puntuali. I piu 
              compromessi tra i personaggi qui ricordati (Mandara, Campesi, 
              Cilluffo, Tusa fra i minori; Mandalari, Ienna, tra i maggiori) non 
              sono difesi, anzi esponenti di rilievo del movimento berlusconiano 
              in Sicilia tendono da una parte a minimizzare il loro ruolo in 
              Forza Italia, dall’altra a sottolineare che il partito ha subito 
              la loro presenza, addirittura emarginandoli (Miccichè non volle 
              riconoscere i club fondati da Ienna e da Tusa; e impedì a 
              Mandalari di prendere la parola, il 16 marzo 1994, alla festa per 
              il successo elettorale di Forza Italia).
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              La difesa, stretta e totale, scatta 
              invece a proposito di personaggi come Musotto, Floresta, D’Ali, 
              Provenzano. Non vi sono evidenze penali nei loro confronti (o 
              almeno non sono ancora state accettate da un tribunale): dunque 
              sono da considerare - con un criterio pan-penale, giustizialista - 
              vittime di un attacco, di una persecuzione. La sconvenienza politica di determinati comportamenti non e 
              rilevata, non e sentita l’inopportunità di fare politica avendo 
              avuto (o mantenendo) determinate relazioni o contiguità o 
              compromessi. Cosi si perpetua un costume della politica italiana 
              che e uno dei punti di forza della criminalità organizzata: la 
              tolleranza nei confronti di un’area grigia che nella politica e 
              negli affari può diventare, via via, inerte, contigua, complice. 
              Senza punti di riferimento fuori dalle organizzazioni criminali, 
              nella politica, negli affari, nella società civile - dunque senza 
              concorso esterno - le organizzazioni criminali sono semplici bande 
              di fuorilegge. Con quei punti di riferimento diventano 
              organizzazioni mafiose.
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              Anomale e isolate, invece, 
              apparivano le valutazioni di Cristina Matranga, che continuava a 
              difendere l’operato di Caselli e dei magistrati siciliani. 
              Matranga - fiera di essere stata eletta, con le sue dichiarazioni 
              pro-magistrati, in un collegio palermitano che comprende quartieri 
              a forte presenza mafiosa come l’Uditore, la Noce, la Zisa - 
              confermava di aver chiesto al suo partito un’operazione di igiene 
              politica: «Dobbiamo aprire un approfondito dibattito interno, non 
              pubblico, sulla nostra organizzazione. Non possiamo permetterci di 
              attaccare in maniera cosi violenta i magistrati che sono in 
              trincea contro la mafia. Sicuramente abbiamo commesso degli 
              errori: vi sono infiltrazioni dentro Forza Italia (come anche 
              dentro gli altri partiti: ma io sono di Forza Italia, e devo 
              considerare il mio partito)».Matranga dichiarò, nel 1998: «Ora non mi sento piu isolata: prima 
              dell’estate ho incontrato Berlusconi e gli ho detto che mi pareva 
              di essere un pesce fuor d’acqua per gli argomenti che sostenevo. 
              Berlusconi mi ha risposto: “Li condivido e ti sono accanto”».
 Ma evidentemente la sua lotta antimafia, alla fine, non è piaciuta 
              al partito: Silvio Berlusconi l'ha estromessa dalle liste 
              elettorali per le politiche del 2001, quelle liste in cui avevano 
              trovato posto invece Marcello Dell'Utri e Cesare Previti...
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               Anche 
              a Catania due esponenti di Forza Italia, l’avvocato Antonio 
              Fiumefreddo e l’eurodeputato Umberto Scapagnini, hanno lanciato 
              pressanti appelli alla pulizia interna al partito. Fiumefreddo, 
              avvocato ed ex responsabile provinciale di Forza Italia per gli 
              enti locali, invio anche alcune lettere a Micciché, denunciando 
              nomi, situazioni e fatti specifici, e chiedendogli un intervento 
              urgente contro le infiltrazioni mafiose nel partito2. Le lettere a Micciché e tutto il materiale raccolto da Fiumefreddo 
              sono finiti anche a Palermo, sul tavolo di un magistrato della 
              procura. Isolato nel partito e rimasto senza alcuna risposta da 
              Micciché, Fiumefreddo nel maggio 1996 decise di dare e dimissioni 
              da Forza Italia.
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                    | 
              Nella geografia politico-criminale 
              italiana, comunque, non c’e solo la Sicilia. Al di la dello 
              stretto, Amedeo Matacena junior, figlio del patriarca di Reggio 
              Calabria, il padrone dei traghetti Caronte che fanno la spola tra 
              Calabria e Sicilia, parlamentare di Forza Italia e condannato in 
              primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa: 
              riconosciuto colpevole, in buona sostanza, per essere diventato 
              negli ultimi anni il nuovo politico di riferimento della 
              ‘Ndrangheta calabrese.Dal suo seggio alla Camera, Matacena non aveva perso occasione per 
              scagliarsi contro il colonialismo giudiziario dei magistrati di 
              Reggio (in testa a tutti, il procuratore aggiunto Salvatore Boemi) 
              che per fare carriera hanno preso a perseguitare una schiera di 
              calabresi per bene.
 Sul campo, Matacena e stato sostenuto da Giuseppe Aquila, ex 
              barista sui traghetti di famiglia, poi fulminato dalla passione 
              politica, sceso in campo con Forza Italia e dal 1997 
              vicepresidente della Provincia di Reggio Calabria. Il 1 settembre 
              1998 Aquila e stato arrestato, con l’accusa di concorso in 
              omicidio: nel 1991, nel corso della guerra di mafia a Reggio, 
              avrebbe sostenuto le famiglie di uno dei due fronti in lotta a 
              colpi di kalashnikov.
 Escluso dalle liste elettorali delle politiche 2001, Matacena non 
              ha mancato di far arrivare a Berlusconi e Dell'Utri pesanti 
              avvertimenti. Chissà come andrà a finire...
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              Più d’una amministrazione locale 
              gestita da Forza Italia e dai suoi alleati è risultata a rischio 
              d’inquinamento mafioso. A Castel Volturno, per esempio, in 
              provincia di Caserta, terra di conquista del clan dei Casalesi di 
              Sandokan Schiavone, il 1 agosto 1998 piombo sul municipio il 
              fulmine di un decreto prefettizio che sospese sindaco e Consiglio 
              comunale per sospette infiltrazioni camorristiche. Primo cittadino 
              di Castel Volturno era Antonio Scalzone, di Forza Italia. Un paio 
              di settimane prima del decreto, una bomba incendiaria era piovuta 
              come un minaccioso avvertimento sulla saracinesca del negozio di 
              alimentari gestito dallau sorella del sindaco. A inizio 1999 sono 18 i Comuni commissariati per inquinamento 
              mafioso (dieci in Campania, tre in Sicilia, cinque in Calabria). 
              Nella maggioranza dei casi, al momento dello scioglimento erano 
              retti da liste di destra o da liste civiche locali.
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              Ma le relazioni pericolose degli 
              uomini di Forza Italia non sono un’esclusiva della Sicilia o del 
              Sud. A Milano, il coordinatore provinciale dei club di Forza 
              Italia ha dovuto ammettere di essere amico di uno dei più temibili 
              boss della ‘Ndrangheta calabrese al Nord. Donato Giordano, 
              politico di lungo corso, e stato per anni il socialista più votato 
              alle elezioni amministrative di Bresso, paesone al confine nord di 
              Milano. Più volte assessore, vicesindaco di Bresso dal 1991 al 
              1994, dopo l’implosione del partito di Craxi si era trasferito 
              armi e bagagli nelle schiere di Berlusconi, che gli aveva affidato 
              l’incarico di responsabile della segreteria regionale di Forza 
              Italia e poi del coordinamento provinciale. Eletto consigliere 
              regionale nell’aprile 1995, il presidente della Regione Lombardia 
              Roberto Formigoni lo aveva chiamato a diventare assessore agli 
              Affari generali nella sua giunta. Giordano nei primi anni Novanta ha dovuto spiegare al magistrato 
              antimafia Armando Spataro come mai fosse socio di un’azienda, la 
              Pie, di cui era socio anche Michele Lombardi, braccio destro del 
              boss della ‘Ndrangheta Pepe Flachi, anch’egli amico del futuro 
              assessore regionale. Ma si, si e difeso Giordano, Flachi io l’ho 
              conosciuto vent’anni fa in un bar di Affori e non sapevo che fosse 
              un delinquente. La mafia intacca la macchina amministrativa? Ma 
              via, non scherziamo...
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                    | tratto da:
              
              http://www.societacivile.it/primopiano/articoli_pp/berlusconi/forzamafia.html  |    |