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La Sacra Sindone

a cura di Luca Berto 

 

La Sindone è un lenzuolo in lino cucito a “spina di pesce” di 442 centimetri di lunghezza per 113 di larghezza conservato nella cappella del Guarini, vicino al Duomo di Torino. Presenta, stampata come se fosse il negativo di una fotografia, l’immagine di un uomo con barba e capelli lunghi: in questa immagine, molti hanno visto impresso, per qualche misterioso e divino motivo, il volto di Gesù Cristo. Insomma, la Sindone sarebbe il sudario di Cristo, il lenzuolo nel quale sarebbe stato avvolto dopo la Crocifissione ed abbandonato nel sepolcro dopo l’Ascensione. Prima di vedere quali siano i motivi che fanno a supporto di questa “teoria”, è opportuno tracciare una breve storia di questo telo, ripercorrendo le tappe che l’hanno o l’avrebbero portato dalla Palestino a Torino. Non abbiamo testimonianze, nelle Scritture, di ciò che accadde al sudario di Cristo dopo l’ascensione. Ciò è dovuto al fatto che, in abiente giudaico, ogni indumento o oggetto venuto a contatto con un cadavere era considerato impuro. E' quindi plausibile che, per salvare il telo, i discepoli abbiano nascosto la reliquia. Una ricerca che sembra avvalorare questa ipotesi è stata condotta dal prof. Michele Salcito, secondo il quale le macchie d'acqua più vistose, causate dall'acqua utilizzata per spegnere l'incendio di Chambery, non corrisponderebbero al sistema di piegatura del telo in quell'occasione, ma ad una piegatura "grossolana" e frettolosa fatta per inserire il lenzuolo in una giara di terracotta del I secolo. Da un Vangelo Apocrifo, però, sappiamo che Gesù, resuscitato, consegnò la Sindone ad un servo del sacerdote del Tempio. Nel 33 d.C., a Gerusalemme, il lenzuolo diventa subito oggetto dell’adorazione dei fedeli, che lo custodiscono per più di 500 anni. Nel 544, infatti, il telo si sposta a Edessa, in Turchia meridionale, dove, le cronache riportano, si ha la prima apparizione di un’immagine “non fatta da mano d’uomo”: la sua esposizione è ancora parziale, viene mostrata solo la parte frontale, quella recante l’immagine del volto. L’identità della Sindone si confonde, qui, con quella di un altro oggetto simile, recante l’immagine del volto di Cristo: il Mandylion, che, vuole la leggenda, sarebbe un fazzoletto (mandylion in greco) sul quale Gesù impresse il suo volto. L’ipotesi che un “fazzoletto” sarebbe la Sindone è spiegabile con l’ipotesi che il lenzuolo fosse piegato in maniera tale da mostrare solo il volto. Da Edessa, i bizantini la portano a Costantinopoli, dove viene esposta integralmente. Nel corso del XIII secolo nell’arte bizantina la raffigurazione della morte di Cristo e della sua deposizione nel sepolcro si modifica: vengono raffigurate caratteristiche che sembrano sottintendere la conoscenza di particolari della Sacra Sindone. Qui rimane fino al 1204, quando i crociati entrano in città e la saccheggiano. Il soldato crociato Robert De Clari riportò, nella sua cronaca, di aver visto “la Sindone del Signore”, “la figura di nostro Signore”, conservata nella chiesa di Santa Maria delle Blacherme. Cosa succeda alla Sindone tra il XIII secolo ed il XIV rimane un mistero. Un documento del 1204, conosciuto soltanto in una copia ottocentesca tratta da una copia antica andata dispersa durante la II Guerra Mondiale, ci fa ipotizzare che la Sindone, nel suo lungo peregrinare per il Mediterraneo, abbia compiuto anche tappa ad Atene: si tratta di una lettera indirizzata di Teodoro Angelo, parente dei deposti imperatori bizantini, a Papa Innocenzo III all’indomani del sacco di Costantinopoli. Nella missiva, Teodoro Angelo si scaglia contro il comportamento dei crociati, conquistatori e razziatori senza scrupoli e senza rispetto per gli oggetti sacri, tra cui la Sindone, che egli sapeva essere conservata ad Atene. Il nuovo signore feudale di Atene, nel 1204, è Ottone de La Roche, uno dei capi della crociata, che durante la presa di Costantinopoli ebbe il quartiere dove sorgeva la chiesa delle Blacherne, dove era custodita la Sindone. Il telo ricompare poi nel 1353 in Francia, a Lirey, donata a Geoffrey de Cherny, grande generale francese, dopo un successo conseguito in battaglia. Il nuovo “padrone” della Sindone era parente, si diceva all’epoca, di un Cavaliere Templare e proprio i Templari, vuole la tradizione, adoravano il viso di un uomo con la barba. E’ dello stesso periodo storico un dipinto, presente a Templecomb, raffigurante un volto molto somigliante a quello della Sindone, posto su un pannello di legno: sarebbe stato il coperchio, si dice, del contenitore della Sindone. Alla sua morte, avvenuta nella battaglia di Poitiers, il 19 settembre 1356, si scatenò una disputa sul possesso della reliquia tra il figlio di Geoffrey de Charny ed i canonici di Lirey ed il vescovo di Troyes, nella quale disputa venne coinvolto anche l’antipapa avignonese Clemente VIII. A metà del XV secolo, Marguerite de Charny ritirò la Sindone dalla chiesa di Lirey, dove era custodita, e la portò con sé attraverso l’Europa. Nel 1452 il lenzuolo viene ceduto a Ludovico di Savoia, alla famiglia del quale erano stati legati sia il padre della nobildonna, sia il suo secondo marito, Umbert de La Roche. La famiglia Savoia stabilisce che la si conservi a Chambéry, capitale dell’allora ducato di Savoia. A partire dal 1471, Amedeo IX detto “il Beato”, figlio di Ludovico, decise di collocare Sindone nella chiesa francescana di Chambery. In seguito, la Sindone venne definitivamente riposta in un’urna d’argento in una nicchia della sagrestia della Sainte Chapelle du Saint-Suaire. I Savoia, nel 1502, chiesero ed ottennero dal Papa il riconoscimento di una festa liturgica apposita, per la quale fu scelto il 4 maggio. Nel 1532, precisamente il 4 dicembre, il sudario rischia di venire distrutto da un incendio sviluppatosi all’interno della Sainte Chapelle: saranno le suore clarisse, nel 1534, a ripararla con toppe triangolari. L’inizio della guerra tra Francesco I e Carlo V, nel 1536, costringe il duca di Savoia a fuggire portando con sé la Sindone: la Sindone passa per Torino, Milano, Nizza, Vercelli, per fare poi ritorno ufficialmente nella Sainte-Chapelle di Chambéry il 4 giugno 1561, in seguito alla pace di Caveau-Cambrésis, che permetteva al nuovo duca Emanuele Filiberto di riottenere i suoi Stati. Nel 1578 i Savoia la fanno trasportare a Torino, nuova capitale del ducato, e la fanno porre nella cappella del Guarini, sua attuale sede. Questo, si dice, più che altro per abbreviare il viaggio dell’arcivescovo Carlo Borromeo, che da Milano voleva recarsi ad adorare la Sacra Sindone a piedi, in base ad un voto fatto in occasione della peste del 1576. Inizialmente, la Sindone fu collocata nella chiesa di San Francesco d’Assisi; in seguito fu spostata nella cappella ducale dedicata a San Lorenzo. Nel 1583 fu trasferita in una cappella rotonda dell’antico palazzo ducale e, nel 1587, venne collocata in un’edicola del duomo. II 1 giugno 1694 la Sindone fu collocata nella cappella della Sindone nell’altare-reliquiario ideato da Antonio Bertola. Sarà quella la sua sede fino al 1996, quando, in occasione dei lavori di restauro della cappella, fu collocata nel coro del duomo. Fu, questo, un fatto provvidenziale, in quanto le permise di scampare all’incendio scoppiato tra l’11 e il 12 aprile 1997. Nel 1706 la Sindone fu spostata momentaneamente a Genova, a causa dell’avvicinarsi dei francesi, che si accingevano ad assediare la città.

 Ancora, tra il 1939 ed il 1946, in previsione dei fatti della Seconda Guerra Mondiale, fu trasportata nel santuario di Montevergine, presso Avellino. Nel 1983, su volere testamentario di Umberto II, viene donata al Vaticano. A questo punto, è opportuno analizzare da vicino questo lenzuolo, per comprendere quali siano i dettagli che lo fanno ritenere il sudario di Cristo.

 Questa è l’immagine totale della Sindone.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un’analisi condotta più da vicino aiuta a riconoscere particolare importanti. Partiamo dal busto, anteriore e posteriore

Tronco dorso presentano moltissime ecchimosi escoriate di forma tondeggiante (1):

potrebbero essere lesioni provocate dal flagrum taxillatum., strumento di tortura costituito da un manico corde al termine delle quali sono fissati dei piccoli piombi a forma di manubrio affiancati a due a due. Su entrambe le zone scapolari si possono osservare ecchimosi a forma quadrangolare (2), provocate da un oggetto che può essere identificato con il patibulum, l’asse orizzontale della croce che il condannato portava su di sé sino al luogo dell’esecuzione. Sul fianco destro del petto si nota una grande chiazza di sangue (3) che fuoriesce da una ferita di forma ovoidale all’altezza del quinto spazio intercostale. Le caratteristiche di questa ferita (che presenta, sul tessuto, un alone sieroso costellato da macchie rossastre, come avviene per il sangue uscito da un cadavere in cui la parte sierosa si è già separata da quella corpuscolata) mostrano che essa fu provocata dopo la morte dell’uomo. Continuiamo con gli arti superiori.

 

 

L’immagine delle braccia non è più visibile a causa della strinatura del tessuto dovuta all’incendio di Chambéry. Gli arti, comunque, sono distesi, con una leggera flessione (4) verso l’interno per la contrazione dell’articolazione del gomito. Sono visibili lunghe macchie di sangue (5), colato probabilmente dalle ferite presenti sul dorso. La mano sinistra è sovrapposta alla destra: sul polso è ben visibile una caratteristica chiazza di sangue (6), formata da due colature divergenti, il cui angolo è riferibile alle due diverse posizioni del condannato sulla croce: accasciata e sollevata. Il sangue fuoriesce dal polso da una ferita di forma ovale, riconducibile alla lesione da uno strumento da punta, come può essere un chiodo. La ferita provocata dal chiodo, dunque, non è collocata sul palmo, ma sul polso, esattamente in uno spazio libero tra le ossa del carpo, chiamato “spazio di Destot"; il chiodo, penetrando nel polso, ha anche reciso il nervo mediano. La scelta di inchiodare le braccia in quel punto è dettata da motivi di stabilità e fissaggio sulla croce: i tessuti del palmo della mano non possono reggere il peso del corpo senza lacerarsi. Tale pratica è stata anche confermata dal ritrovamento, vicino Gerusalemme, dello scheletro di un crocifisso del I secolo. Concludiamo la nostra analisi con gli arti inferiori, visti da davanti e da tergo.

E’ evidentemente il volto di un uomo picchiato: si possono notare tumefazioni, lividi, macchie di sangue (11) (famosa è la macchia a forma di 3 rovesciato (12), la cui forma dipende dalla rughe d’espressione della fronte); sulla fronte, sulla nuca e lungo i capelli, disposte a raggiera intorno al capo, sono evidenti numerose macchie di sangue ad andamento sinuoso (13), sangue fuoriuscito da ferite da punta di piccolo diametro. Il naso è leggermente storto (14), a causa, forse, di una frattura.

La Sindone, da sempre, lascia stupiti e perplessi tutti coloro che vi si avvicinano. E’ davvero il volto di Cristo? O si tratta di una delle tante mistificazioni di oggetti sacri realizzate nel Medio Evo? I pareri divergono. E le analisi che vengono condotte ad intervalli irregolari da studiosi o pseudo-tali non aiutano di certo, visto che, puntualmente, emergono fatti nuovi a suffragare l’una o l’altra ipotesi. Vediamo i fatti. Una prima “scoperta” che pare avvallare l’autenticità del lenzuolo viene fatta, per caso, nel maggio del 1898 da un avvocato con la passione per la fotografia, tale Secondo Pia. Una fotografia del telo, fatta dell’uomo durante la sua ostensione, mostrava il volto “positivo” di un uomo e non, come logica suggerirebbe, il “negativo”. Questo voleva dire che era la figura sul telo ad essere in “negativo”, il che significava, ancora, un eventuale falsario medioevale aveva volontariamente dipinto i lenzuolo in “negativo”. Cosa poco probabile, visto che l’invenzione della camera oscura era parecchio successiva. Questo, però, non fu sufficiente a far desistere i sostenitori della teoria del “dipinto”. Nel 1939 il professor Romanese, per esempio, dimostrò che un corpo trattato con aloe e mirra è in grado di lasciare sul tessuto di lino un’impronta simile a quella della Sindone. L’esperimento pratico condotto dal professore, in effetti, portò a questo risultato, tuttavia senza la perfezione di impressione che si nota sulla Sindone. Nel 1969, ancora, Noemi Gabrielli, soprintendente delle Gallerie ed opere d’arte medioevali in Piemonte, affermò che il corpo di Gesù era stato disegnato da un artista su una stoffa bagnata e poi trasferita sulla tela con una procedura assai comune nel Medio Evo. Nello stesso periodo, lo studioso Walter McCrone affermò che si trattava di un doppio dipinto: la prima immagine era stata realizzata con colori ricavati dalla terra e le macchie di sangue ricavate da spruzzi di vermiglio. Prove pratiche iniziarono a compiersi nel 1975, quando due ricercatori della NASA, J. Jackson e E. Jumper, utilizzando un analizzatore spaziale denominato VP8, crearono un modello tridimensionale del corpo avvolto nella sindone, realizzato, poi, materialmente con leggeri strati di cartoni di vetro. Cosa simile fu fatta tre anni più tardi dal prof. Giovanni Tamburelli, il quale, analizzando vari punti del tessuto nei quali, a suo dire, erano contenute informazioni che davano la distanza fra il tessuto e la pelle, dimostrò che il lenzuolo aveva davvero avvolto un corpo umano. Tamburelli, poi, fece di più, ricavando al computer l’immagine tridimensionale del volto stampato sulla Sindone. Volto che ha impressionanti somiglianze con quello descritto da tutti i Vangeli, con tumefazioni causate dai colpi di bastone, con profondi segni causati dai flagelli, con tracce delle tre cadute fatte da Gesù nel tragitto fino al colle del Golgota, con gocce di sangue rappreso. Oltre a questo, una cosa nuova: una fossetta lasciata sull’occhio sinistro da una moneta. Questa pratica, secondo gli esperti, era cosa comune nei primi anni dell’era cristiana, non in seguito. Inoltre, la tradizione delle scritture ci tramanda un Gesù morto vestito solo da una specie di pannolino: l’uomo della Sindone, invece, è nudo. Un artista medioevale non avrebbe mai rappresentato Cristo in maniera diversa da quella tramandata. Dunque, l’ipotesi della falsificazione medioevale diventava sempre più flebile. Questa ipotesi veniva demolita, anche, da altri fatti, più propriamente anatomici ed appartenenti ad una cultura “medica” solamente moderna. Vediamo quali sono. Sulla fronte del volto della Sindone compare una macchia di sangue a forma di 3, cosa che corrisponde perfettamente con l’incisione sulla fronte causata dalla corona di spine. Le mani, inoltre, non presentano l’immagine dei pollici (7): Baima Bollone, esperto di fama mondiale nella medicina legale, dedicatosi per anni allo studio della Sindone, spiega che, durante la crocifissione, i chiodi vanno ad incidere un tendine adibito proprio al movimento del pollice, che rimane, così, bloccato all’interno della mano. Nel 1981, il già citato Baima Bollone esaminò alcuni frammenti di fili estratti dal telo. Ciò che scoprì fu molti interessante: sui frammenti c’erano tracce di sangue, del gruppo AB. Oltre a questo, l’”esame autoptico” condotto da Bollone stabilì che il viso era asimmetrico, tumefatto da numerose percosse, che un occhio era gonfio e le labbra erano gonfie a causa di un colpo. Insomma, l’immagine stampata sulla Sindone rappresentava senza dubbio un uomo morto per crocifissione mediante chiodi, pratica di morte presente soprattutto nell’Impero Romano (altri popoli preferivano l’impalamento o la crocifissione mediante anelli a bloccare le braccia). 

Recentemente, il botanico Max Frei ha avviato una nuova ricerca, basata su un metodo diverso: la botanica, appunto. Alcune fibre di tessuto, notò l’uomo, sembravano contenere granuli o spore di polline. La loro analisi rivelò che si trattava di polline di faggio e tasso tipici dell’Europa settentrionale e centrale. Questo provava che la sindone era stata esposta (all’aperto) in Francia ed in Italia. Altri pollini erano, invece, di altre piante, tipiche della Turchia meridionale, di una particolare verità dell’Assueta che cresce solo in Palestina, del Paganum Hamala, tipico del deserto tra il Mar Morto e Gerico, e di altri sei arbusti endemici di quella zona. Insomma, il telo era stato nelle terre del Vangelo. Nel 1988 la Chiesa autorizzò tre laboratori (in Arizona, ad Oxford ed a Zurigo) a compiere analisi al Carbonio 14 sulla Sindone. Il Carbonio 14 è una sostanza che viene assorbita da tutti gli esseri viventi (piante ed animali) che respirano, fin quando questi sono in vita, e che si deposita sulle ossa; è una sostanza che decade ad intervalli regolari di tempo, dunque, con alcuni semplici calcoli, è possibile risalire al periodo in cui l’animale o la pianta ha cessato di assorbire carbonio, in cui, cioè, è morta. L’analisi di alcuni piccoli frammenti del tessuto della Sindone rivelò che il sudario di Gesù era ben più recente dei 2000 anni che le si attribuivano, risalendo ad un periodo compreso tra il 1260 ed il 1390. E’ probabile, però, che il frammento di tessuto utilizzato per l’analisi sia quello utilizzato dalle clarisse per il restauro in seguito all’incendio del ‘500. 

Recentemente, l’interesse degli studiosi si è concentrato sull’immagine della moneta stampata in corrispondenza di un occhio, di cui abbiamo già parlato. L’analisi della moneta ha rivelato che si tratta di una moneta presente in Palestina tra il 29 ed il 30 d.C., come il profilo di una coppa e le lettere TIB, iniziali di Tiberius, Tiberio, l’imperatore sotto quale Cristo morì, testimoniano. La verità riguardo alla Sindone, è probabile, non la sapremo mai. Ma in fondo, è davvero la verità che ci interessa scoprire? O è forse meglio lasciare la risposta a certi quesiti solamente alla nostra anima ed alla nostra fede? Ognuno, in base alla propria personalità, cerchi la risposta come meglio crede.

 

tratto da:  http://www.daltramontoallalba.it/reliquie/sindone3.htm

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Ultimo aggiornamento:

 29 ottobre 2006